Bisogna risalire a El Chacal de Nahueltoro di Littin per ritrovare una visione messa così a fuoco della parte più povera della società cilena che in tempi ormai passati la dittatura ha cercato di occultare nell’immaginario come accade oggi con il neoliberismo. Ma le differenze di classe nel paese sono ancora notevoli. La nuova generazione di cineasti è già intervenuta viaggiando preferibilmente nel profondo sud della Patagonia lontano da Santiago, con film che sfiorano più la poesia che il reportage politico, fatto non strano in un paese dall’alto numero di celebri poeti e premi Nobel. El Cristo ciego di Christopher Murray si sposta invece verso l’estremo nord, zona di miniere che anche il pubblico più vasto conosce per l’eccezionale salvataggio dei minatori rimasti sepolti effettuato nell’ottobre del 2010 a San José.

Anche nel suo caso non si tratta di un semplice intervento di denuncia sociale: utilizza una chiave di religiosità contadina per mostrare in piena luce, come in un vangelo dei poveri, uomini e donne che non partecipano del grande boom economico del paese inconsapevoli di far parte della «Pantera del sudamerica». Incontra questi personaggi nel suo cammino Michael il giovane che sente dio dentro di sé e la forza per compiere il miracolo di guarire il suo amico di infanzia. Nel cammino che lo conduce al suo pueblo incontriamo vecchi, drogati disperati, minatori licenziati senza salario diventati ladri per sopravvivere, sicari, donne che hanno subito violenza da mariti psicopatici, perfino un calciatore esordiente dell’Iquique (nella regione di Tarapacà nel nord, affacciata sull’oceano dove è ambientato il film).

Il passaggio del giovane mistico, accompagnato da racconti che punteggiano il viaggio come nuove parabole alle volte poco comprensibili come lo erano quelle del Vangelo, accende in molti la fede in un mondo migliore, la speranza di un miracolo.

Come in parecchi film della Mostra di Venezia di quest’anno l’elaborazione del misticismo, della trascendenza, ha in questo film una chiave problematica, ora di speranza, ora di rifiuto. Più vicina a una cultura cilena o in genere latinoamericana (pensiamo a Birri riscoperto dalla nuova generazione non solo argentina) che a evocazioni pasoliniane, più amara e senza scampo per chi non riesce ad ascoltare il silenzio interiore, si fa attraversare dai volti e dalla polvere del deserto come a rendere conto di un’umanità senza voce, derelitta in una zona ricchissima che a loro non dà nulla. Il giovane regista laureato all’Università Cattolica del Chile da cui provengono altri registi cileni, interessante luogo di formazione anche cinematografica, ha codiretto con Pablo Carrera Manuel de Ribera girato nel sud, premiato a Rotterdam. Qui ha utilizzato gli autentici abitanti del luogo non relegandoli al ruolo di comparse ma di protagonisti.