«Corpo, sguardo e silenzio». Un titolo evocativo che pare pensato su misura come omaggio alla settima arte e che, invece, è mutuato da una riflessione di Franco Basaglia, in uno dei tanti fondamentali scritti che hanno costellato la sua carriera di indomito rivoluzionario della sanità. Lo ha preso in prestito Sergio M. Grmek Germani, che lo ha scelto come esergo alla 17.ma edizione de I Mille Occhi. Un’edizione compatta e militante, orgogliosamente resistente – quella che si è conclusa l’altro giorno a Trieste – in cui le radici del Festival internazionale del cinema e delle arti non sono state ignorate, e anzi sono state valorizzate nello stretto legame che unisce la manifestazione al territorio giuliano, dando lustro a quelle personalità che, per nascita o per adozione, dalla città al confine più estremo d’Italia hanno lasciato un segno tangibile anche a livello internazionale.

La dimostrazione è data, in primis, dal Premio Anno Uno, attribuito al regista triestino Franco Giraldi, «un maestro del cinema europeo dietro l’angolo» atteso ieri al Teatro Miela, al termine di una personale in cui hanno trovato spazio pellicole di segno spesso diverso, da Sugar Colt a La Bambolona, da La Frontiera a Un anno di scuola, anche dai sodali Omero Antonutti e Senta Berger, sublime protagonista di Cuori solitari e La giacca verde. E poi Basaglia, appunto, celebrato in un omaggio «rosselliniano» che comprende sì La città di Zeno di Franco Giraldi – pellicola che crea uno di quei giochi di rimandi e di specchi inseguiti e provocati dal direttore del festival Germani, quando diversi percorsi del programma si intrecciano e convergono – ma anche riscoperte e inediti assoluti riportati per la prima volta alla luce: I giardini di Abele, reportage (rosselliniano, ça va sans dire, ma con gustosi sprazzi felliniani) sulla malattia mentale girato da Sergio Zavoli in pieno ’68 e trasmesso su Tv7 a gennaio dell’anno seguente, e soprattutto, Franco Basaglia intervista gli onorevoli sulla Legge 180 e la riforma sanitaria, una raccolta di quattro conversazioni che lo psichiatra realizzò personalmente, nell’autunno del 1979, con politici italiani apparentemente non ancora del tutto consapevoli della portata rivoluzionaria dei provvedimenti che avevano da poco votato: Pietro Longo, allora segretario dei socialdemocratici, il socialista Claudio Signorile e due appartenenti alla Democrazia Cristiana, Paolo Cabras e Bruno Orsini, tra i firmatari della Legge 180.

Maureen O’Hara «maya desnuda» nel manifesto di Milleocchi 201

Basaglia avrebbe voluto proseguire il progetto intervistando altre personalità, ma fu interrotto dalla malattia che lo portò alla morte il 29 agosto 1980. E per restare sul pezzo, mentre non si placano le polemiche attorno alla giunta locale che pochi giorni fa ha censurato il manifesto della mostra «Razzismo in cattedra» promossa dal liceo Petrarca di Trieste, proprio nell’ottantesimo anniversario dell’emanazione delle leggi razziali del governo fascista, a solo poche centinaia di metri da Piazza Unità d’Italia, dal cui palco Mussolini tenne il suo sinistro discorso, il festival, in collaborazione con l’Istituto Resistenza Fvg, ha voluto ricordare – in una proiezione affollatissima – la visita del Duce a Trieste del 1938, con i materiali dell’Istituto Luce.

Nell’affascinante dedalo di visioni immaginato da Sergio Germani, non poteva mancare il quasi doveroso omaggio, nel cinquantesimo anniversario, a «un certo anno», il 1968, declinato schivando le scelte più ovvie e scontate, affidandosi invece allo sguardo degli autori che tra il 1967 e il 1969 hanno maggiormente contribuito all’apertura di nuovi orizzonti: Pietro Germi (L’immorale, Le castagne sono buone) e Giorgio Bianchi (Sedotti e bidonati, Assicurasi vergine), Vittorio De Seta (Un uomo a metà) e Ferreri (L’Harem), Carmelo Bene (Don Giovanni) e Ermanno Olmi (Un certo giorno), Damiano Damiani (Il sorriso del grande tentatore).

Se Olaf Möller ha curato la riscoperta di Eckhart Schmidt, «unicum» nel panorama del cinema tedesco, Mila Lazic si è invece spinta oltre nello scandaglio delle avanguardie serbe e croate che un anno fa, nella sezione «Castelli di Sabbia», ci aveva fatto conoscere le sperimentazioni di autori come Ivan Martinac, Tomislav Gotovac, Mihovil Pansini e Lazar Stojanovic. Alcuni di quei nomi li abbiamo ritrovati anche nel «sequel» di quest’anno, con l’orizzonte temporale spostato in avanti, agli anni Novanta, gli anni del conflitto jugoslavo.

Immagini in bassa definizione, sgranate, non per questo meno potenti nel restituire l’orrore di quella guerra insensata, che portano la firma dei più fieri oppositori di Milosevic, abili de-costruttori della sua propaganda di regime. Interessante osservare, ad esempio, come in molte immagini «la volpe dai cento volti» Radovan Karadzic, riconosciuto criminale di guerra all’epoca adorato dalle masse, si adoperasse per mostrarsi come un intellettuale carismatico e alla mano, appassionato di musica e poesia. Segno inequivocabile di quanto il popolo possa dimostrarsi cieco, ostinandosi nei secoli a non riconoscere il lupo quando si traveste da agnello.