Che cos’è un «capolavoro»? Da quali fattori dipende il giudizio che permette a un’opera, sia essa letteraria, artistica o musicale, di diventare un capolavoro? È un giudizio puramente contingente e, come tale, ci si deve aspettare che muti col mutare del gusto? E chi lo stabilisce che cosa sia un capolavoro?
Nel Vocabolario Nomenclatore di Palmiro Premoli, pubblicato nel lontano 1912 ma ancora assai utile per indagare i meandri della lingua, sotto la voce «opera» si incontrano varie definizioni. Tra esse anche quella di capolavoro: «Capo d’opera, capolavoro, la più perfetta opera d’un autore; opera, nel suo genere, eccellente, unica: gioia, gioiello, meraviglia, perla, perfezione». Da una definizione come questa si riescono a isolare alcuni elementi che possono venire in soccorso: da un lato sta l’unicità, lo stacco che il «capolavoro» dichiara rispetto ad altre opere coeve e che, quindi, lo circoscrive rispetto all’insieme di tutte le altre opere esistenti in un dato momento. Dall’altro – «la più perfetta opera d’un autore» – emerge un discorso che è, per così dire, interno al processo creativo delle opere di un medesimo artista. E dunque una definizione che permette di cogliere lo scarto tra opere sì coeve, ma anche accomunate dal fatto di essere dello stesso autore o autrice.
Non ci dice, però, la definizione di Premoli, a chi spetti il compito di stabilire cosa è o non è un capolavoro; e attraverso quali strumenti o categorie concettuali ciò sia possibile. È, questa, una questione suggestiva e da molti punti di vista cruciale. Una risposta ad alcuni di questi quesiti arriva dal libro di Hans Belting, Il capolavoro invisibile Il mito moderno dell’arte, edizione italiana a cura di Luca Vargiu, pubblicato da Carocci (pp. 571, euro 65,00, 180 illustrazioni). La prima edizione tedesca del volume apparve nel 1998, per poi essere tradotta in inglese nel 2011; ma in questa seconda edizione l’autore ha scelto di non pubblicare tre capitoli. Come specifica il curatore, è stato per espressa indicazione di Belting che si è scelto di tradurre in italiano l’edizione inglese del testo, e non la prima edizione tedesca (uno dei capitoli tagliati è incentrato sul Bauhaus, e avrebbe comunque potuto offrire ulteriori spunti di riflessione).
Il dramma di Frenhofer
Come forse si sarà intuito, il titolo fa riferimento al racconto Le Chef-d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac, pubblicato nel 1831. Balzac narra la storia, ambientata nel XVII secolo, del vecchio pittore Frenhofer che in gioventù convinse Mabuse ad accettarlo come allievo. Frenhofer confessa a Porbus – il protagonista – e a Nicolas Poussin che da sette anni sta lavorando a un’opera. Un’opera che sarà un capolavoro. Porbus convince Gillette, la compagna di Poussin, a posare per Frenhofer: lo sguardo dell’anziano posato sul corpo di Gillette scatena la gelosia di Poussin. Solo a questo punto Frenhofer si convince a mostrare il misterioso dipinto, che rappresenta un nudo femminile, ai due amici. Il risultato è sconcertante: Porbus e Poussin non riescono a distinguere nulla, vedono solo un ammasso di colori. Unico dettaglio che si riesce a scorgere chiaramente è un piede. Di fronte a questa sconfitta Frenhofer mette alla porta i due e, sconvolto, dà fuoco ai suoi dipinti, per morire infine quella stessa notte.
L’anelito di Frenhofer alla creazione del capolavoro è l’atteggiamento caratteristico, secondo Belting, degli artisti nella modernità. Uno dei presupposti del libro di Belting, enucleato nell’introduzione, è che a un certo punto della Storia si sia stabilito un vero e proprio rivolgimento rispetto al modo di guardare a quello che veniva considerato il ‘canone’, e cioè l’arte dell’Antichità classica greco-romana. È da quando nasce il museo come istituzione in cui l’antico sta a fianco del contemporaneo che il canone si sbriciola. In particolare Belting individua questa cesura al principio dell’Ottocento con la creazione del Musée Napoleon, museo dal quale sarebbe disceso il Musée du Louvre. Tra l’opera d’arte, concreta nella sua fattura e materia, e l’idea di opera che gli artisti perseguono si consuma una separazione, avviene un distacco che non si riesce a sanare.
Su una prospettiva lunga, che parte come detto nella Parigi di primo Ottocento, in un contesto di pieno Romanticismo, e si conclude sull’orlo del mondo globalizzato degli avanzati anni sessanta (ma con alcune fughe ben dentro gli anni ottanta e novanta), Belting indaga quella che si potrebbe definire una vera e propria fenomenologia del rapporto tra opera (effettivamente e concretamente realizzata) e idea dell’opera (sempre inseguita e mai raggiunta). Un ruolo centrale nel discorso di Belting lo ha il rapporto tra gli artisti e il loro processo creativo, e il museo come luogo in cui l’arte del passato si mostra e in un certo senso incombe sugli artisti moderni. Un ruolo speciale spetta naturalmente alla Monna Lisa, vero e proprio «feticcio dell’arte», oggetto di innumerevoli reinterpretazioni e bersaglio del sarcasmo dadaista.
Poco a poco si segue il vero e proprio abbandono da parte degli artisti dell’opera d’arte ‘tradizionale’: per tecnica, formato, modalità di esposizione. Sempre di più entrano in scena nuovi linguaggi e nuovi modi di dare vita e concretezza all’idea di opera. È negli anni sessanta che si giocò una partita fondamentale, che portò alla ridefinizione delle abituali categorie con cui si era soliti guardare all’arte. E lì si vennero a scontrare ancora una volta, in modo ancora più forte, l’idea di arte e la concretezza materiale delle opere. Dai germi del minimalismo americano emergeva poco a poco, come ben vide Michael Fried nel 1967 nel suo Art and Objecthood, un’arte spaziale, che implicava l’installazione di oggetti – e non la loro esposizione. La crisi dell’opera come «creazione personale di un oggetto realizzato per essere esposto» ha allargato ancora di più il ventaglio delle possibilità espressive e linguistiche che gli artisti possono abbracciare.
Un piccolo libro del 1983
Belting riesce a tratteggiare un grande affresco che restituisce le differenti possibilità che ruotano attorno a ciò che chiamiamo «capolavoro» e al suo statuto mobile, inafferrabile. È possibile leggere questo volume come una sorta di applicazione dei principi che Belting aveva espresso con lucide argomentazioni già nel 1983, in un piccolo libro tradotto da Einaudi sei anni dopo, La fine della Storia dell’arte o la libertà dell’arte. Lì, uno dei principi sui quali l’autore si concentrava, era proprio il fatto che gli artisti moderni fossero assai consci della ‘storia’ dell’arte, ma che non avessero interesse a portarne avanti i presupposti.
Quello che alla fine di questo rimescolamento delle categorie e dei generi emerse fu un modo di guardare alle opere d’arte che Belting definisce, nell’ultimo capitolo, «l’opera come ricordo»: è la posizione, ad esempio, dell’artista belga Marcel Broodthaers, che a partire dalle pratiche del citazionismo reintrodusse il museo nelle sue opere, dando vita a un vero e proprio «museo fittizio». Ma è anche la reinterpretazione che delle opere viene data nei film, come nel caso de La belle noiseuse di Jacques Rivette (1991).
È attraverso gli occhi della malinconia – in parte la stessa malinconia che segna il racconto di Balzac – che si guarda allora all’opera d’arte, determinata non più dalle sue qualità intrinseche ma dal museo che la legittima esponendola nelle sue sale. Un campo d’azione complesso che, in tutta la sua forza, definisce e orienta anche il nostro presente.