«Ho visto il mio riflesso in una vetrina e non ho riconosciuto la mia faccia. Fratello, lascerai che mi consumi per le strade di Philadephia?», canta Bruce Springsteen in Streets of Philadephia, colonna sonora dello struggente film di Jonathan Demme dedicato alla Aids crisis che l’autore e attivista Larry Kramer, recentemente scomparso, definì un vero e proprio olocausto.

In tempi di coronavirus, è forse il caso di ricordare che anche altre epidemie affliggono gli Stati Uniti, e tra queste, più silenziosa ma dagli effetti terribili, l’abuso di oppiacei: una piaga iniziata alla fine del secolo scorso che a oggi causa la morte di circa centotrenta persone al giorno. Per quanto amaramente ironico, proprio Philadelphia, città-simbolo della Rivoluzione americana e quindi della libertà e dell’indipendenza, è anche uno dei luoghi con la più alta percentuale di schiavi dell’eroina. Il quartiere di Kensington, in particolare, detiene un non invidiabile primato nei volumi dello spaccio.

Proprio a Kensington, quartiere di lusso della fine del XIX secolo caduto in rovina e invaso da droga e prostituzione, Liz Moore ambienta I cieli di Philadelphia (traduzione di Ada Arduini, NNE, pp. 460, € 18,00) il suo romanzo poliziesco investito da dettagliati affondo nel realismo sociale; meglio: una denuncia travestita da poliziesco.

La storia insegue Mick Fitzpatrick sulle piste di un assassino seriale che sceglie le sue vittime tra prostitute disperate, alla ricerca dei soldi per una dose. E la trama investigativa va a perdersi tra le storie, ben più sviluppate, degli abitanti del quartiere, tutte segnate in maniera drammatica da problemi di dipendenza.
Immediatamente mettendo in chiaro l’oggetto principale della sua scrittura, Liz Moore apre il romanzo (e lo chiude) con la lista di tutte le persone della vita di Mick distrutte dall’eroina. L’ossessione della protagonista è che a questo elenco possa aggiungersi la sorella minore Kacey, ragazza passata troppo in fretta da un’adolescenza ribelle al limbo della tossicodipendenza. Il rapporto tra le due è complesso, sconta i traumi di una famiglia andata in pezzi un’overdose alla volta, ed è fatto allo stesso tempo di protezione e ostinate fedeltà, nonché dei tradimenti che la dedizione all’eroina impone a chi ne fa uso.

Sullo sfondo di un quartiere in rovina, popolato di corpi emaciati, i rapporti tra i personaggi sono descritti da Moore con dolorosa partecipazione, e con la precisa intenzione di dimostrare come, tanto Kensington quanto le vite che ospita, esistano in una zona grigia che coincide, sì, con l’atmosfera plumbea di una società moribonda, ma anche con la rottura di delimitazioni nette tra il bene e il male, tra ciò che è sano e ciò che non lo è.

Grazie a una ammirevole sensibilità nel tratteggiare le psicologie dei suoi protagonisti dolenti, la scrittrice statunitense produce un campionario di figure solide e emotivamente complesse, capaci di scatenare empatia o a volte una franca avversione. La detective story del romanzo è inarticolata e sbrigativa, ma funziona come un canovaccio sul quale si stagliano con forza le dinamiche sociali e affettive di una città malata e della spietatezza di un sistema che abbandona senza remore i suoi membri più deboli. Moore espone apertamente le disuguaglianze endemiche della società americana: il resto della città in cui ambienta il romanzo sembra migliaia di chilometri (e di dollari) lontana dallo squallore in cui la protagonista passa la vita. Nella divisione tra passato e presente che scandisce l’intreccio, Mickey Fitzpatrick non può nemmeno rifugiarsi nel conforto di un’infanzia idealizzabile, mentre il qui e ora rischia in ogni momento di trasformare la lotta quotidiana per l’esistenza in un cupio dissolvi. Eppure, in tanto buio, la scia di dolore può ancora trasformarsi in un «lungo fiume luminoso», come recita il titolo originale. Il costo è altissimo, ma qualche salvezza è ancora possibile.