Prima di diventare sulle pagine dei quotidiani il testimonial di un noto marchio di abbigliamento sportivo mimetizzandosi tra i ghiacci, Liu Bolin, lo scultore e fotografo cinese soprannominato “ l’uomo invisibile” e “il camaleonte” ha messo in scena una vibrante forma di protesta che gioca tutto sull’implicito/esplicito, sul vedo/non vedo. Sarebbe però troppo facile ricondurla ai difficili rapporti tra gli artisti e l’autorità politica come si fa di solito quando ci si riferisce all’arte contemporanea cinese. In realtà Liu Bolin punta più in alto. Qual è l’intento dell’artista? «L’uomo, sostiene, si sta dissolvendo, ingoiato da tecnologie e sviluppo. E io non voglio perdermi in questo labirinto. Non credo che per cambiare le cose si debba per forza essere ’contro’. Si rende invisibile per farsi notare, perché chi guarda faccia la fatica di indovinare la sciarada in cui si nasconde». Liu Bolin nasce nel 1973 nella provincia di Shandong nella Cina orientale. Studia all’Accademia di Belle Arti e poi, sotto la guida del famoso artista Sui Jianguo, all’Accademia Centrale d’Arte Applicata di Pechino, dove oggi vive, alternando lunghi soggiorni all’estero.
Appartiene alla generazione che diventa adulta all’inizio degli anni novanta quando il paese si riprende dal trauma della Rivoluzione Culturale e si avvia a una singolare crescita economica. Fin dalla prima mostra personale a Pechino nel 1998, in cui erano esposte le sue fotografie e le sue sculture che toccavano i grandi temi del rapporto tra uomo e natura, tra libertà e potere politico, si afferma su un piano internazionale ottenendo numerosi riconoscimenti nelle mostre allestite a Parigi, New York, Palermo, Verona, Barcellona, Bruxelles, Stoccolma, Mosca, Vienna senza mai dimenticare Pechino e Shanghai.
È spesso in Italia dove realizza il ciclo «Hiding in Italy» nei luoghi simbolo di molte città. Il Duomo di Milano, il ponte di Castel Sant’Angelo a Roma, il Palazzo Ducale a Venezia, gli affreschi di Pompei. In «Fade in Italy», il progetto che affronta esplicitamente i problemi della moda italiana come industria, si nasconde tra i manichini abbigliati in rossi abiti da sera. Negli anni più recenti si appassiona all’epocale processo migratorio dall’Africa all’Europa, scegliendo per mimetizzarsi i luoghi più drammatici come i barconi fatiscenti dove si accalcavano centinaia di migranti che hanno affrontato la traversata, le spiagge gremite a perdita d’occhio di corpi in attesa, gli affollati centri di accoglienza tra disperazione e degrado. Migrante tra i migranti.
IL VUOTO
La nuova direzione del suo lavoro comincia nel novembre 2006 quando il Suojia Village di Pechino, il villaggio degli artisti indipendenti dove abitava, viene distrutto dalle autorità. La sua protesta silenziosa è affidata alla foto in cui tutto dipinto di bianco affiora tra le macerie sparse sul terreno, davanti al tetto rosso in bilico sul vuoto. Vuole dimostrare così la sua appartenenza a quel luogo. «Ho deciso di mimetizzarmi con l’ambiente», fa sapere. «Alcuni diranno che sparisco nel paesaggio, io direi che è il paesaggio che s’impadronisce di me».
Nella mostra «Liu Bolin, Ghost Stories», alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi fino al 29 ottobre, sono presentati i quattro temi ricorrenti nel suo lavoro: la politica e la censura, la tradizione e la cultura cinese, la società dei consumi, la libertà di espressione. Nelle opere si integrano fotografia, body art, art optique e scultura vivente. Il camaleonte posa per ore davanti a un muro, un paesaggio, un monumento per arrivare a fondersi con lo scenario di sfondo. Occhi chiusi, silhouette appena visibile, senza alcun trucco, con l’aiuto dei suoi assistenti fa nascere la sua opera, che si può anche definire un’opera collettiva molto simile al cinema in cui l’illusione finale è sempre frutto della collaborazione di diverse persone. Alla fine del processo creativo fissa il risultato con la fotografia.
Nel gigantesco frigorifero di un macello, davanti ai quarti di bue squartati appesi ai ganci, si trasforma in uno dei tanti animali congelati, tutto dipinto di rosso con mezzo viso annerito come coperto da sangue coagulato, il corpo coperto di brina, la parte inferiore dei calzoni e le scarpe colorate di giallo ocra come il pavimento. Ispirandosi al naturalismo oltranzistico del regista teatrale francese André Antoine che per primo alla fine dell’Ottocento li aveva esposti in scena nei «Bouchers», ma cambiandogli di segno. Nel corridoio di un supermercato cinese, appoggiato allo scaffale delle bevande d’importazione, mostra il segreto delle sue performance. Viene dipinto da un assistente di cui si vede il braccio e la mano armata di pennello che lo colora a strisce con gli stessi toni dello sfondo. Accasciato per terra davanti a una staccionata blu, mezzo blu e mezzo color mattone come il marciapiede su cui è seduto, i piedi scalzi, le braccia abbandonate, fa da sponsor per l’Unicef. All’interno della Città Proibita scompare negli spazi infiniti del grande cortile sullo sfondo del palazzo imperiale che domina, imponente, la fotografia e il paesaggio.
IL ROSSO
In un’altra opera è rosso in una platea di poltrone rosse che riempiono tutta la foto, come l’unico sopravvissuto in un auditorium deserto. Il rosso è del resto il colore della Cina. Se non esita a mimetizzarsi maliziosamente tra le lanterne rosse e davanti alla bandiera nazionale, rosso è anche l’enorme pugno, con cui ha cominciato la sua attività di scultore, servendosene subito dopo per la performance «Red Hand» con uomini e donne distesi sotto il pugno durante l’inaugurazione di una galleria cinese.
Ma la foto più emblematica sulla prevaricazione del potere è un dittico in cui un poliziotto in divisa, prima abbranca per le braccia l’uomo invisibile, poi gli copre gli occhi con le mani. In entrambe le foto il nero dell’ uniforme si sovrappone al fantasma che sembra imprendibile, immateriale com’è, e sfugge a chi lo vorrebbe trattenere che chiude i pugni sul vuoto. Perso tra gli oggetti, oggetto lui stesso, come un antico stregone mostra le sue magie nei luoghi più disparati prendendoli a simbolo della deriva della società moderna e soprattutto di quella del paese in cui è nato.
LE AVANGUARDIE
Liu Bolin sembra a volte un fotografo naif tanta è l’immediata freschezza delle invenzioni di abbagliante originalità. Ma sarebbe un’impressione sbagliata perché la novità non esclude una straordinaria conoscenza della storia dell’arte di ieri e di oggi. Nelle sue opere non si contano i richiami alle avanguardie artistiche del Novecento, da Duchamp a Man Ray. Il riferimento ai capolavori dell’arte moderna anima una serie di fotografie in cui si è divertito a farsi ospitare, sempre ai limiti dell’invisibilità in «Notte stellata» di Van Gogh, «La libertà» di Delacroix, «Gioconda» di Leonardo, «Guernica» di Picasso. Altrettanti omaggi. Rivisitazioni in chiave. Giochi allusivi. Sì, forse, giochi perché nella sua attività, una specie di particolarissima casa dei giochi, la componente ludica è fondamentale.