Roma, 23 ottobre 2017. Le mani e il volto sono le ultime parti del corpo di Liu Bolin (provincia dello Shandong, Cina, 1973, vive e lavora a Pechino) ad essere dipinte.

Due artisti del team di Boxart Gallery di Verona sono al lavoro fin dalla prima mattina, nel vento freddo di fine ottobre che si riscalda a mezzogiorno. Con i colori acrilici la giacca di Bolin e i suoi pantaloni verdi (così come le vecchie scarpe da ginnastica) si mimetizzano lentamente con lo sfondo, in questo caso è il Colosseo, ma potrebbe essere una foresta di alberi, la bandiera europea, il sipario di un teatro, lo scaffale di un supermarket o una scultura antica.

Si lavora fino al tramonto con l’eco del traffico quotidiano che si mescola alle voci dei turisti e a quelle registrate in più lingue che snocciolano la litania dei divieti nell’accedere all’area archeologica. Impassibile, l’artista cinese che si è formato frequentando la prestigiosa Accademia Centrale d’Arte Applicata di Pechino (era studente del noto artista Sui Jianguo che è stato suo mentore fin dagli inizi della carriera), cambia lentamente pelle attuando la sua personale strategia di sparizione che è un atto sociale e politico, oltre che artistico. Diventare memoria umana e architettonico vuol dire anche prendere parte alle trasformazioni della società. Una responsabilità di cui è sempre stato consapevole.

Esercizio e rigore: cosa prova “l’uomo invisibile” durante il lungo processo (può arrivare a 8 ore) di preparazione alla mimesis che precede lo scatto?

Nel mio lavoro sono costretto a rimanere immobile mentre vengo dipinto. E’ molto stancante, però devo farlo per aiutare i pittori. Devo combattere contro me stesso per non muovermi anche perché molte volte – come oggi – fa freddo e mi verrebbe voglia di muovermi per scaldarmi. Ma credo nell’arte e m’impongo un’autodisciplina molto forte. Fare l’artista è il mio sogno, per portarlo avanti ci deve essere rigore.

Sei stato altre volte a Roma dove hai presentato Secret Tour al Museo Andersen (2012) e realizzato le tue performance a Castel Sant’Angelo, alla Galleria Borghese vicino a Paolina Borghese e al Colosseo. Come avviene la scelta della location e dell’inquadratura, a cui affidi il gesto di riappropriazione della memoria dell’individuo nei confronti di un patrimonio naturale e culturale che appartiene alla collettività?

Anche quando mi sono mimetizzato con la Muraglia Cinese, nel 2010, che per noi cinesi è un po’ come per voi il Colosseo, ho sempre pensato alla relazione tra la gente comune e l’eredità culturale attraverso i monumenti. Lo penso anche durante le performance stesse. Immergere il mio corpo nella bellezza di questi monumenti ha per me diversi significati.

Ad esempio qui, nel cuore dell’impero romano, mi riporta alla storia e all’archeologia che ho studiato sui libri e sui cataloghi quando ero studente di scultura. I monumenti degli antichi greci e dei romani mi affascinavano tanto e ora che ho l’opportunità di lavorare proprio qui è un traguardo personale.

Come artista sono allenato ad inquadrare la forma perfetta della bellezza. E’ una regola.

Nel tuo lavoro sparizione e silenzio entrano in scena, come pure verità e finzione nella declinazione di camouflage. C’è ancora traccia della protesta che risale alla distruzione del villaggio di Suojia (16 novembre 2005), nella performance che hai realizzatolo lo scorso anno di fronte al Louvre di Parigi insieme allo street artist JR?

Nel 2005, dopo che il governo cinese distrusse il mio studio e l’intero villaggio dei artisti, nella serie Hiding in the City ho usato la performance come strumento di protesta. In seguito ho iniziato a riflettere anche su altri problemi.

Ad esempio, dopo il 2008 a Pechino – la città dove vivo – se da una parte è scoppiata una situazione economica molto favorevole, sono anche sorti tantissimi problemi, soprattutto in fatto di inquinamento. Ho trattato di quei problemi in Cancer Village, mentre in Supermarket parlo del cibo e, soprattutto, delle bevande (Soft Drinks) che sembrano innocue, ma già a partire dai colori contengono molte sostanze nocive. Uscendo dalla Cina, poi, ho cominciato ad analizzare i diversi problemi degli altri paesi, come quello delle armi negli Stati Uniti dopo l’11 settembre.

In Italia il mio lavoro s’incentra più sul tema della cultura e della relazione con le persone. A proposito di JR ci siamo conosciuti esattamente dieci anni fa ai Rencontres de la Photographie di Arles. La nostra prima collaborazione risale al 2012 quando, a New York, mi sono mimetizzato con i suoi graffiti.

Nella primavera 2015 lo ritrovai a Parigi. JR aveva ricevuto un invito dal Louvre a realizzare un progetto e, dato che anch’io in quello stesso momento, mi trovavo lì per un altro impegno lo contattai proponendogli di fare una nuova collaborazione. Lui disse di sì. Gli artisti sono sempre pieni di entusiasmo! (ride). In due giorni preparammo tutto. Fummo fortunati. Bé, a dire il vero, non troppo perché dovemmo rifare gli scatti.

Non so come possa essere successo, ma dopo aver posato quella prima volta davanti alla piramide del Louvre, i file scomparvero dal mio computer. Questa è una delle storie invisibili all’interno del processo. Un’esperienza che non dimenticherò!

In quell’unica immagine fotografica si sintetizza la tua opera. Quanto è importante il rapporto con l’autore dello scatto, che sia Luca Elettri (il fotografo che sta realizzando gli scatti qui al Colosseo e con cui lavori da una decina di anni) o Annie Leibovitz con cui hai collaborato per la pubblicità di un noto brand?

Con Annie Leibovitz, prima di iniziare il lavoro, abbiamo chiarito quale fosse il suo ruolo e il mio. Lei ha scattato la fotografia, ma ha precisato che ero io l’autore. E’ stato importante che fosse chiara la proprietà intellettuale del lavoro. Per quanto riguarda la relazione con Luca, così come per gli altri fotografi con cui collaboro, fa parte di un team che è diverso in Francia, a New York o qui in Italia. Penso che il fotografo abbia un ruolo importante nel processo del lavoro, in quanto lo scatto finale è affidato alla macchina fotografica, ma l’intero processo è nelle mani di professionisti – stampatori, producer e le gallerie stesse che seguono il mio lavoro – che, però, sono sempre io a controllare.

Hai sempre dichiarato di non aver mai avuto problemi di censura in Cina, dove certamente il clima socio-politico è profondamente cambiato da quando hai iniziato la tua carriera negli anni ’90. Eppure una foto in cui compari sotto il ritratto di Mao Zedong, in piazza Tienanmen, non è stata pubblicata in un tuo catalogo monografico perché considerata controversa…

E’ una domanda spinosa. Come dicevo prima, nel mio lavoro c’era protesta ma ora mi sono spostato più su riflessioni di carattere globale. Non faccio politica. Non è il caso di parlare più dei vecchi lavori.

In alcuni progetti come Migrants (2015), realizzato in collaborazione con il C.A.R.A. di Catania, sono protagoniste altre persone, in quel caso i migranti. Quali sono state le difficoltà nel lavorare in un contesto diverso e quali sono i significati?

I significati possono essere diversi perché il ruolo dell’arte ha la potenzialità di scavare in profondità. A Catania mi sarei anche potuto mettere io sulla spiaggia, ma non avrei potuto provare quello che vivono i migranti. Sarebbe stata una finzione. Invece, rendere loro stessi protagonisti mostra la realtà per quello che è. Racconta meglio la verità ed è molto più forte.

Per fare l’artista hai dovuto sfidare l’opposizione di tuo padre, che quando ti vedeva dipingere spezzava i pennelli. Eppure è stato proprio lui ad indossare la tua prima creazione scultorea che era una sorta di copricapo. Quanto è stato importante e motivante doverti battere per portare avanti il tuo sogno?

(ride) In Cina, come penso in qualsiasi altro paese al mondo, se un figlio dice ai genitori che vuole fare l’artista, questi gli rispondono “sei pazzo?”. Io ho portato avanti il mio sogno. Ho iniziato a studiare arte nel 1985, parecchio tempo fa. Ora anche i miei genitori ne sono orgogliosi.

Mi ritengo un ragazzo fortunato perché espongo nei musei e nelle gallerie, ma questo non vuol dire che non abbia smesso di studiare. Voglio imparare sempre di più e per farlo lavoro sodo. C’è come una forza che parte dall’interno e mi spinge, guidandomi nel mio percorso.

NOTE BIOGRAFICHE

Liu Bolin è nato nel 1973 nella provincia dello Shandong (Cina), vive e lavora a Pechino. Scultore, performer e fotografo è conosciuto anche come “l’uomo invisibile”, per il suo mimetizzarsi nell’ambiente.

Dal 2005 – quando con la sua prima serie Hiding in the city protestò contro la demolizione del quartiere degli artisti di Pechino deciso dal governo – egli porta avanti la sua critica nei confronti della società e della politica, sia nel suo paese che in occidente.

Nel corso del 2017 gli è stata dedicata la retrospettiva Ghost Stories alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi e al Festival Portrait(s) di Vichy (Francia).

La galleria Boxart di Verona, che rappresenta il lavoro di Liu Bolin in Italia, ha curato il progetto che nell’ottobre 2017 ha visto l’artista cinese protagonista della nuova serie di scatti realizzati a Roma (Colosseo) e nella Reggia di Caserta.