Ogni anno, sempre più precocemente, si discute e si discetta del Natale: se sia o meno un principio identitario irrinunciabile, una festa «cristiana» o «pagana», soprattutto, vige l’idea che «non sia più il Natale di una volta». In effetti, questo corpus di tradizioni (chiamare il Natale una «festa» sarebbe riduttivo) è cosa complessa e non facile da definire, messa di mezzanotte a parte. Siamo in presenza di un insieme di gesti, riti e credenze che hanno il sapore di cerimonie ben più antiche. Sembra quasi che in quella notte di 2015 anni fa il cristianesimo abbia vinto, ma pagando pesanti e perenni tributi ai figli di Kronos.

 

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Il tutto soffuso in un’«atmosfera» piuttosto difficile da definire, carica di un’ambiguità a metà strada tra nostalgia e attesa, tra momenti di gioia sinceri e un diffuso senso di fastidio. Affiora uno sfuggente malessere, forse frutto di un’imperfetta saldatura – magari anche storica – tra un evento che vorrebbe essere di portata cosmica, la nascita di un Dio, e una generale disattenzione ai suoi insegnamenti; tra l’ambiziosa aspettativa di una rigenerazione degli uomini e la scottante e irritante realtà di uomini che si consumano e consumano il mondo per ragioni assolutamente private.

Lo spreco rituale
Anche quel suo aspetto più scontato e deprecato, il consumismo non è di immediata comprensione: diverse civiltà hanno avuto e continuano ad avere momenti di distruzione gratuita dei propri beni, di «spreco» rituale, tentando così di affermare le proprie esistenze e, quindi, di controllare il mondo. A suo corollario assistiamo a un vorticoso scambio di doni: una forma non cruenta per ridefinire annualmente le gerarchie, chi sta «sotto» e chi «sopra» nella scala sociale, oltre che in quella degli affetti.
Nel cristianesimo il dono è un elemento non accessorio: un Dio che non chiede di immolare figli o martiri ma è egli stesso, immortale, a offrire in dono la sua vita a beneficio degli uomini. È questo l’atto fondante della «tradizione» cristiana: la passione di Cristo, non il suo «compleanno». Anzi i cristiani hanno sempre aborrito l’idea di genetliaco, considerato dai loro antenati pagani alla stregua di un vero rito religioso. Per loro il battesimo era una «rinascita» e i festeggiamenti del dies natalis dei santi in realtà era riferito al giorno della loro morte e, dunque, della loro «nascita in cielo», alla vita vera.

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La stessa eccessiva enfasi proposta verso le festività natalizie a scapito di quelle pasquali (sempre più solo un periodo destinato alle vacanze) denotano una scarsa conoscenza, se non di teologia, almeno del catechismo.
Fondato sul massimo tra i doni possibili, la Chiesa ne ha a lungo osteggiato lo scambio: non era tollerabile per un buon cristiano lasciarsi irretire nel diabolico meccanismo della reciprocità del dono, come quando il patronus romano distribuiva strenae ai propri clientes in cambio di fedeltà. Ciò, evidentemente, si opponeva all’idea di carità, del donare disinteressatamente: «Vi ho detto, non date strenne, ma date ai poveri. Ora, mi si obbietta: ’Quando do le strenne, a mia volta ne ricevo’. Ma, secondo la promessa del Signore, se darete ai poveri riceverete cento volte tanto». Così ammoniva Cesario di Arles agli inizi del VI secolo.

In realtà le strenne romane in qualche modo sono sopravvissute anche dopo la «domesticazione» (nel senso di ritorno alla domus) della festa. Lo scambio familiare dei regali si è sempre più concentrato nel giorno di Natale, a scapito di altre date e ricorrenze (13 dicembre, santa Lucia, 6 gennaio, Tre Re o Befana) e delle antiche strenne del Capodanno.
A un’analisi più approfondita, sembra essersi conservata una distinzione, quasi una sfumatura, tra «strenne» che si donano a gennaio con chi si vorrebbe avere un rapporto non familiare ma comunque stretto, i Romani avrebbero detto «clientelare» o pubblico, e la famiglia. Resta una marcata differenziazione tra mance o strenne che si danno a fattorini, portieri, badanti, vigili urbani e del fuoco (fino a qualche anno fa esisteva una Befana a loro riservata) e i regali scambiati nell’intimità della casa.

Due tipi di scambi che evidenziano due diversi tipi di relazione: uno pubblico, verticale, gerarchico, l’altro privato e orizzontale. Il primo tende a sottolineare e perpetuare la gerarchia delle posizioni sociali, il secondo mette in primo piano la reciprocità immediata, gli affetti e prevede un controdono immediato, lasciando ai margini la «graduatoria» familiare.
Anche altre furono le battaglie che la Chiesa ha intrapreso contro le «tradizioni» pagane: i canti, l’assurdità della crapula, il gioco d’azzardo, i cortei mascherati, il parlare coi morti e il riceverne regali; il fare uscire scintille dal «ceppo di Natale» (sorta di antenato dell’albero di Natale) per conoscere il futuro. Tutte azioni e rituali che resistono ancora in Italia durante il Tempo di Natale, dal Trentino alla Sicilia, dai Krampus ai «cosi ri morti».

In realtà, dietro l’idea apparentemente semplice di tradizioni natalizie (pesantemente influenzate da «liturgie» pubblicitarie, processi di patrimonializzazione e dal loro conseguente utilizzo ideologico) si nascondono realtà complesse sulle quali non è facile generalizzare se non per dire che, paradossalmente, quasi tutti quei rituali popolari che appartengono a questo tempo sono più antichi della Chiesa e da essa continuamente riprovati, a cominciare proprio da quegli innocenti «canti» che ultimamente paiono diventati parte integrante delle tradizioni del Natale.

 

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L’ugola censurata
È dall’epoca di sant’Agostino (354-430) che vengono proibite le canzoni «irriverenti e oscene» in voga in questo periodo e, qualche secolo dopo, Alcuino (735-804) ancora si scandalizzava del fatto che a Natale si usasse cantare ritualmente. Sappiamo dalle condanne dei sinodi che a queste manifestazioni canore venivano (vengono) attribuiti numerosi benefici, soprattutto l’aumento del raccolto, il benessere e la fecondità del bestiame. Al contrario, se eseguite in altro momento, potevano arrecar danno e minare la salute dei bambini. Forse fu anche per contrastare tali «scandali» che sant’Alfonso de’ Liguori nel 1754 compose la nota canzoncina Quanno nascette Ninno, in napoletano.

Crapuloni a tavola
Tra le tradizioni «domestiche» la fanno da padrone la crapula, le abbuffate basate su un numero spesso rituale di portate, il gioco d’azzardo, edulcorato nella sua forma borghese di Mercante in fiera o tombola e la già detta frenetica circolazione di doni, portati soprattutto da una semi-divinità vestita di rosso, che sia la tradizione europea sia quella commerciale americana vorrebbero perennemente assetato, come tutte le figure provenienti dall’altro mondo.
In un periodo di incertezza alimentare e astronomica, quando il sole sembra spegnersi e non v’è traccia di raccolti, diviene obbligatorio lo spreco di cibo, sia sotto forma di offerte e sacrifici, sia in funzione esorcizzante contro l’aleatorietà e la scarsità dei beni di sussistenza. Il mangiare insieme mette in gioco un sistema di relazioni che corre parallelo alla circolazione di doni: a tavola si rinnovano gerarchie e affetti e nascono nuove mitologie gastronomiche. Tutto il periodo è scandito da narrazioni intorno alla quantità e qualità delle cose mangiate.

Altra consuetudine del Natale è il gioco, antico retaggio di un mondo passato, ma anche di una psicologia: vincere o perdere può mostrare se il fato è con noi o contro. In un momento di passaggio, miticamente equiparabile all’inizio del mondo e del tempo, è facile tentare di spiare il futuro attraverso la sorte. Non è un caso che molti statuti comunali del passato proibiscano «che nulla persona presuma iocare ad anzara né ad altro ioco de dadi proibito o de carta excepto li tre iorni de Natale». I cortei di uomini con travestimenti ferini sono un altro «scandaloso» tratto del periodo che, fortunatamente, è sopravvissuto: basti andare tra i krampus trentini o a Tricarico per vederlo.

Florido Santa Claus
Parte di queste tradizioni popolari si sono spostate, a partire dal Novecento, sulla rubiconda figura di Santa Claus, che solo lontanamente ricorda l’antico san Nicola di Bari. Il suo aspetto florido e rassicurante cela un invito al godimento, allo sperpero, alla circolazione di beni che non sarebbe mai stato concesso a qualsiasi altra più religiosa figura. La Chiesa, da parte sua, dopo qualche bizza, cattolica e puritana, non tardò a rendersi conto che quel Santa Claus l’aveva mandato il cielo: metteva al sicuro la festa della Natività e la figura di Cristo da ogni influenza dissacrante o profana.

Senza volerlo è diventato il capro espiatorio di quell’insopprimibile tendenza al consumismo che nessuno è mai riuscito a eliminare dalle tradizioni natalizie. Inoltre, Babbo Natale è un babbo, un padre mitico per eccellenza, quindi un antenato, un defunto venuto a socchiudere le porte dell’aldilà lasciate aperte da quei vocianti bambini mascherati alla morbosa ricerca di dolcetti. A chiuderle definitivamente, ci penserà la sua collega portatrice di doni, la Befana.

 

SCHEDA

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L’uso dell’abete come albero legato al Natale potrebbe risalire al XV secolo, quando a Tallinn ne venne eretto uno enorme nella piazza del Municipio: intorno, uomini scapoli e ragazze nubili danzavano in una sorta di rito propiziatorio del matrimonio. Questa usanza venne poi ripresa in Germania: una cronaca di Brema del 1570 racconta di un albero che veniva decorato con mele, noci, datteri e fiori di carta. In Alsazia, in una cronaca di Strasburgo del 1605, troviamo scritto che «per Natale i cittadini si portano in casa «dannenbaumen» (abeti), li mettono nelle stanze, li ornano con rose di carta di vari colori, mele, zucchero, oggetti di similoro». L’abete, il «Tannenbaum», ha la caratteristica di essere sempreverde (per questo sostituisce le visioni medievali dei giardini con alberi da frutto), che, secondo una leggenda del cristianesimo, ha avuto come dono da Gesù, per avergli offerto rifugio mentre era inseguito dai suoi nemici.