Se dovessimo trovare una dichiarazione calzante e suggestiva sulla Lituania potremmo ricorrere a quella dell’ antropologo, politico e geografo Kazys Pakštas, secondo il quale il piccolo paese baltico sarebbe condannato all’ instabilità, posto com’è tra Est e Ovest. “Ah, se ci fosse un posto diverso dove poterlo collocare!”, diceva Pakštas. Eppure, al di là, del fascino della provocazione la forza, spesso, viene dagli attriti. A cento anni dalla sua indipendenza, sofferta anche in seguito, la Lituania del cinema si muove tra la ricerca di identità e punti fermi della sua storia, tra festival e premières. Dal “Core of the World” di Natalia Meshcaninova a Toronto e San Sebastian alla “Acid Forest” di Rugilė Barzdžiukaitė a Locarno, fino alla nomination agli Oscar di Arūnas Matelis con il suo “Wonderful Losers: A Different World” . Tuttavia, se i premi non fanno il cinema per certo lo fanno le storie. All’ultima edizione del Dok di Lipsia una retrospettiva suddivisa in tre sezioni segue le fila di una ricerca, scoscesa, ma sempre presente a se stessa. “I figli della guerra”, ovvero cartoline da una memoria proibita, “Nati con l’indipendenza: alla ricerca dei paesaggi interiori, e i “Figli dell’era digitale: tre generazioni di autori e narrazioni”. Per la prima sezione “The old man and the land” (1965) di Robertas Verba è un esempio di documentario poetico del dopoguerra, un racconto semplice di un vecchio contadino di un villaggio: la famiglia, i figli, la moglie, i ricordi; antieroe buffo di un kolchoz e immagine di un mondo sulla via del riscatto dalle rovine. Sullo stesso taglio immaginifico e verista al tempo stesso si pone “A trip across misty meadows” di Henrikas Šablevicius (1973) dove i campi nebbiosi del titolo sono quelli attraversati da un treno e dalla presenza del ferroviere Povilas, aggiunto, poco spontaneamente, in un secondo momento dal regista più interessato a un semplice film silente con la ferrovia come unica protagonista. Le maglie strette dei “suggerimenti” a cui uniformarsi toccano anche il già citato Robertas Verba che per “The dreams of Centenarians” (1969), presentato in onore del centenario dalla nascita di Lenin, fu incoraggiato a filmare la working class dell’ epoca, qui incarnata da normali contadini, ironicamente anch’essi centenari. Nonostante le direttive, i duri e puri della critica contestarono la mancanza di ottimismo e la scelta di soggetti lontani dal valore estetico di vigore e gioventù…

L’osservazione di gente comune è il cuore di “Sensitivity as Bread” (1979) di Edmundas Zubavi

ius: un omaggio lirico alla vita quotidiana attraverso lo studio medico di un veterinario di campagna; l’empatia umana si fonde alla natura come in una preghiera, nonostante il fortissimo realismo. Lo stesso regista firma anche “No Foe can scare us” (1978): nel villaggio di Samogitia ci si prepara, in una simulazione, ad un eventuale attacco da un probabile nemico al di là del confine. L’ironia giunge involontaria una volta che i partecipanti sembrano non prendere troppo sul serio l’incombente minaccia. Arūnas Matelis prima di essere candidato per l’Oscar ha dato voce ai filmakers post sovietici. Il suo “Ten minutes before the flight of Icarus”(1990) , proiettato anche a Cannes nel 2005, è un’immersione totale nella realtà e il lirismo è nel corso stesso della storia, quella dell’inizio di una nuova era, colta nel quotidiano di Užupis, quartiere storico della parte vecchia di Vilnius. Dello stesso, cruciale, anno è “In memory of a day gone by” di Šarūnas Bartas: emarginati, disabili, fette della società invisibile entrano nel cinema lituano, e alla campagna (quasi) idilliaca si preferisce lo sporco urbano. Una nuova poetica dove poter trovare una sedia libera. L’opera epica e scatenata che descrive il periodo è per certo il documentario “How we played the revolution” (2011) di Giedrė Žickytė. Figlia dell’era digitale, la regista ripercorre con interessanti materiali d’archivio la scelta di un gruppo di architetti di mettere in piedi una band, gli Antis, durante l’inizio della perestrojka. In principio non fu che una presa in giro, non ancora troppo scomoda al potere, una singing revolution la cui sovversione era da leggere tra le righe per quelli abituati a farlo da troppo tempo. Il gruppo debuttò per una vigilia di Capodanno come un evento di cabaret e divenne famoso grazie al passaparola; le paillettes, il make-up, le scenografie esagerate e i testi nonsense (apparentemente) furono il contraltare della propaganda e premessa per le marce del rock che coinvolsero migliaia di lituani. Come sosteneva Václav Havel sono stati davvero i jeans e la musica rock a distruggere l’Unione Sovietica? La performance innocente degli Antis (Anti-Soviet?), mina vagante del movimento di liberazione, cavalcò l’ondata di euforia che si impossessò in breve del paese non senza momenti drammatici. Un documentario fatto in tempo di “pace digitale” sull’unicità di un periodo storico e sulle espressioni artistiche che l’assurdità del potere partorisce. Quello che resta sui detriti di un impero, in un paese problematico ma formalmente pacificato, è raccontato da Mindaugas Survila, biologo di formazione, nel suo primo film “The field of magic” (2011). Un lavoro di quattro anni su un gruppo di abitanti di una foresta a ridosso di una discarica, 40 km da Vilnius; una comunità disintegrata dal resto della società ma compatta al suo interno, che fa forza sulla sua unicità scandita da un ritmo quotidiano e sulla condivisione di gioie e dolori. Se i jeans e la musica hanno ribaltato la Storia l’unica rivoluzione possibile è quella dentro di noi?