Essere i ragazzi degli Anni Sessanta e Settanta forse non era facile nell’Italia della canzone. Una generazione numerosa di cantanti ventenni, o poco più, affascinata dalla musica che veniva dall’estero e ossessionata dalla traduzione in italiano di successi planetari in inglese (non c’era internet, pochissimi italiani capivano l’inglese e il pubblico sapeva poco). Little Tony, ciuffo e abiti come Elvis Presley che invece di Devil in Disguise cantava Cuore Matto, Bobby Solo con la sua Lacrima sul viso e il mascara sulle ciglia, la prima Mina dopo Baby Gate e Ornella Vanoni dopo la Mala, o Rita Pavone che sostituisce il twist con Il gegheggè. E poi c’erano Milva, Iva Zanicchi, e l’elfo Patty Pravo e il suo Ragazzo Triste presa da But you’re mine di Sonny and Cher (1966) mentre già Dalida, importata dalla Francia, portava il glamour nei vestiti e la spensieratezza del sirtaki di La dance de Zorba e l’immane bellezza di Ciao amore ciao a Sanremo del 1967 in coppia con Luigi Tenco, relazione costruita a tavolino per evitare una tragedia che invece si verificò (Tenco si è suicidato la sera dell’esclusione dalla gara). Il che non le ha impedito di essere la prima donna di Partitissima e di cantare Dan dan dan.

E questo quando negli stessi anni la televisione italiana in bianco e nero importava dive dall’estero, prime fra tutte Sylvie Vartan che apriva la trasmissione Doppia Coppia cantando Irresistibilmente vestita all’ultima moda parigina con le camicie di seta dalle maniche a sbuffo e i pantaloni attillati sulle cosce e scampanati al fondo (prototipo della zampa d’elefante) mentre le ballerine si muovevano in uno studio bianco vestite con una copia mal riuscita dei costumi che Yves Saint Laurent aveva disegnato per un balletto di Zizi Jeanmarie su coreografia di Roland Petit (il marito di Zizi).

[do action=”citazione”]Erano gli anni, insomma, in cui la copia – spesso non autorizzata e tradotta liberamente – in Italia si chiamava Cover e a nessuno veniva in mente di denunciare nessuno, perché la moda era così: anche Caterina Caselli si vestiva alla Swinging London e con il suo caschetto era la copia di Biba mentre nel 1967 cantava Sono bugiarda senza subito dichiarare che era la traduzione di I’m a Believer scritta da Neil Diamond e incisa dai Monkees solo l’anno prima.[/do]
Anche Little Tony era una Cover vivente, quella di Elvis-Pelvis-Presley ma con la faccia buona del bel ragazzo italiano: ciuffo e basettoni, e perfino le camicie di jeans e colorate (ma in tv non si vedeva), giacche con le frange e quegli accostamenti di colori che la moda chiama ancora Mexican Sunset, e cioè pantaloni rossi, camicia arancione e giacca nera. Oppure i giubbotti di pelle bianca ricamati con i fili colorati e perfino le giacche di paillettes dorate, tanto sui teleschermi a casa arrivava solo una giacca luccicante.

Little Tony è il primo a essersene andato di quella Generazione Cover che non ha tanto peccato di furbizia quanto di ingenuità, forse spinta dall’industria discografica a cercare modelli affermati all’estero per affermare un nuovo genere musicale che non aveva storia in Italia ma di cui si sentiva l’urgenza nel mercato. Ora, Tony con la sua giacca di pelle rossa, quella che indossava sulla copertina del disco, Riderà compiaciuto della sua storia di cantante italiano degli anni pre-progresso. Di certo non rimpiangerà nulla di quello che ha fatto né piangerà per non poterlo più fare, perché un Uomo piange solo per amore, come cantava vestito di giallo in un protovideo promozionale guidando un’auto scoperta.