Se ne è andato a 87 anni Little Richard, uno dei padri fondatori del rock’n’roll. Richard Wayne Penniman, questo il vero nome, era malato da tempo, aveva problemi all’anca, aveva avuto un colpo apoplettico e un infarto. Le cause precise del decesso non sono state rese note. Il suo ruolo – così come quello di Fats Domino o Chuck Berry – come propulsore di un genere specifico è stato enorme.

Fu in grado di portare agli adolescenti bianchi il rhythm’n’blues senza corrompere del tutto le caratteristiche del genere. In tal senso un pezzo come Tutti Frutti, uno dei suoi brani più noti, è emblematico: una bomba ritmica che scriveva le regole del rock’n’roll, che si appoggiava sulla furia della voce e sulla potenza del volume. Tutti segnali che arrivavano dal mondo del blues o del gospel, generi che bisognava aver frequentato per afferrare la specificità dirompente, culturale e politica di Little Richard.

AL PUNTO che la versione di quello stesso pezzo, eseguita da Pat Boone, il ragazzo bianco perbene, arrivò in vetta alle classifiche e quella di Richard sostò nelle zone più basse. E questo nonostante il rocker nero avesse già fatto uno sforzo enorme nel gioco delle varie contaminazioni (gospel, blues, pop, country) che stavano contribuendo alla nascita del rock, al punto che quando eseguiva i suoi pezzi più noti – da Tutti Frutti a Long Tall Sally, da Rip it Up a The Girl Can’t Help It, da Lucille a Keep A-Knockin’ e Good Golly, Miss Molly – dinanzi a un pubblico afroamericano in molti storcevano il naso. «Volevano più blues, cose tipo B.B. King», raccontava. Ma tant’è, le nuove risposte alle esigenze del mercato soffiavano nel vento.

AVEVA INIZIATO la carriera negli anni Quaranta, ma il grande salto nella storia del rock era arrivato solo nel 1955 quando Tutti Frutti divenne il suo primo grande successo. Un pezzo che nella storica locuzione d’apertura (A-wop-bop-a-loo-bop-a-wop-bam-boom!), irrefrenabile esplosione di gioia, si portava dietro anche il gergo dei disc jockey neri. Quelle sillabe una dietro l’altra alla fine non erano altro che il modo in cui l’artista si era immaginato l’intro della canzone se al posto della sua voce ci fosse stata una rullata di batteria.

E che pezzo era quello. Che alla fine aveva dovuto anche modificare perché nella versione originale era tutto un altro testo, con l’artista che si era immaginato un protagonista omosessuale e uno schiaffo di parole che incedevano così: «Tutti Frutti, good booty/If it don’t fit, don’t force it/You can grease it, make it easy/ (Tutti Frutti, bel sedere/Se non ci sta, non forzare/Puoi lubrificarlo, renderla più facile). Sarà il produttore Bumps Blackwell a fargli cambiare idea e a sostituire quei versi con l’assonante «Tutti Frutti, aw rooty, Tutti Frutti, aw rooty». Se per qualche strana ragione i versi fossero rimasti quelli, forse Little Richard sarebbe stato cancellato dalle narrazioni rock dominanti ma di sicuro sarebbe divenuto uno degli «oggetti politici» più rilevanti di tutti i tempi.

E non avrebbe sorpreso. Come sottolineava Alessandro Portelli in un saggio di qualche anno fa, la rivendicazione della mascolinità è sempre stato uno dei canali attraverso i quali i neri compensano la crisi di identità e di rispetto di sé causata dall’oppressione razziale. Ma proprio l’urgenza con cui la virilità viene riaffermata – spesso in maniera iperbolica – rende anche la profonda insicurezza esistenziale da cui deriva. Nella cultura nera l’esaltazione virile trova, dall’altro lato della bilancia, la presenza diffusa dell’omosessualità, in parte intesa come rifiuto di adeguarsi a canoni così esagerati, e viene in mente lo scrittore e poeta James Baldwin.

ANCHE Little Richard stava dentro questo universo di ribellione e forte politicità, le sue performance erano indimenticabili, con quegli occhi bistrati, gli abiti sgargianti – di cui poi Prince, suo vero emulo, si sarebbe appropriato – e quel martellamento furioso sui tasti del pianoforte che aveva ripreso da Esquerita, storico cantante e pianista statunitense a cui si era ispirato anche per quella caratteristica capigliatura Pompadour.

E proprio il gioco sulla sessualità era una caratteristica dell’artista fuori dal palco e in scena. Non a caso era stato un drag performer prima del rock’n’roll e per sua ammissione un voyeur che assisteva a coppie di maschi che flirtavano nella sua macchina mentre lui assisteva; per due volte era stato arrestato per condotta licenziosa; e però tutto poteva cambiare nella sua vita e tutti gli stereotipi potevano saltare e essere forzati; di qui una sfilza di interviste in cui condannava l’omosessualità, altre in cui dichiarava di essere gay, altre ancora in cui si definiva bisessuale.

I fan restavano confusi ma alla fine cedevano dinanzi a quella presenza scenica e a quella voce che, fra i tanti, avrebbe stregato per sempre Paul McCartney. Ad esempio quando l’8 ottobre 1964 i Beatles registrano She’s a Woman, lato b in Gran Bretagna di I Feel Fine (negli Usa era il contrario), di quel pezzo incideranno 7 versioni: la sesta sarà quella che finirà sul 45 giri. Ma è la settima che disvela il rapporto di McCartney con Little Richard; in quella incisione il gruppo si scatena e la voce del bassista è un lungo, interminabile omaggio (vera e propria imitazione) al maestro del rock’n’roll. Imperdibile.

GLI STESSI Beatles incideranno pezzi del rocker come Long Tall Sally o Lucille, eseguiranno tanti suoi brani live e apriranno per l’artista negli anni dello Star-Club di Amburgo. Ma non solo i Beatles erano stati frullati dal ciclone Richard; anche Otis Redding era rimasto a bocca aperta quando lo aveva sentito per la prima volta a 13 anni; gli rimarrà per sempre impressa quella presenza scenica e quegli occhi sbarrati. Finché nell’ottobre 1957 cambia tutto. Mentre Little Richard è in tour in Australia, vede una palla di fuoco in cielo – il satellite Sputnik 1 – e lo interpreta come un segnale divino.

Nel 1958 diventerà un predicatore tornando solo nel 1962 alla musica secolare. Ma da allora e per tutto il resto della vita, il conflitto dio-musica del diavolo alimenterà la sua carriera. Anche quando negli anni ’70 e a seguire, finirà nel circuito delle «vecchie stelle», continuando, però, a mantenere quella stessa voce ammaliante di sempre, una voce – come dirà McCartney – talmente oltre che «per stargli dietro e imitarla devi uscire dal corpo».