In una famosa scena di Amarcord si vede un professore di greco che interroga un ragazzino, proponendogli parole misteriose: Epta necròn gar pesònton us emàrpsamen posìn chèilioi èimen fonèes. Il destinatario però pare ignaro delle sublimità elleniche, finge di non saper pronunciare l’ostico emàrpsamen, e si beffa del docente con impertinenza. I versi sono del giambografo Archiloco: nella scuola evocata da Fellini c’erano già i «lirici greci», a far faticare gli studenti tra frammenti oscuri e bellezze remotissime. In quel tempo, nuove scoperte di testi e intensi studi filologici avevano rilanciato l’interesse per la poesia greca arcaica, e il gusto ermetico ne aveva resa accettabile, anzi gradita, la straniante frammentarietà. Ma allora la lettura della lirica greca si svolgeva in termini di contemplazione della bellezza, nella scuola e anche all’università: un famoso grecista padovano proclamava negli annitrenta che «Saffo è tutta d’oro», sottraendosi alle Fragen della filologia. C’era una strana passione verso quei testi spesso brevi, senza contesto, difficili: relitti di antiche parole. Riviverli, attualizzati alla sensibilità moderna, fu l’intento della fortunata traduzione pubblicata da Salvatore Quasimodo nel 1940: la quale però era molto selettiva, quando non censoria, nella scelta dei testi, e spesso arbitraria nella resa. Stava, sullo sfondo, l’ambiguità del concetto di «lirica»: una parola che uniformava e avvicinava alla poesia soggettiva moderna un corpus di testi invece molto diversificato, e irriducibile all’idea stessa di «liricità» (qualunque cosa essa significhi). Poi, nel dopoguerra, una svolta radicale: si comprese che bisognava leggere quella poesia non con le categorie moderne della soggettività e della letteratura, ma riscoprendone storicamente la dimensione comunicativa, il rapporto tra poeti e pubblico, l’occasione del canto e le modalità di esecuzione.
Questa prospettiva, oggi dominante, sorregge l’antologia di poesia greca che nei «Diamanti» propone l’editrice Salerno, con il caratteristico e inconsueto formato che ricorda l’editoria di altre epoche: Lirici greci, a cura di Chiara Di Noi, con un’introduzione storica di Luigi Enrico Rossi e una premessa di Michele Napolitano (pp. LXII-634, euro 22,00). Un lavoro del genere deve affrontare il problema di trasmettere ai non addetti ai lavori il senso di questi testi. Le suggestioni estetizzanti del passato eccedevano per impressionismo critico; l’approccio filologico sommerge il testo sotto enormi apparati, per raggiungere una comprensione adeguata all’intenzione degli autori. Ma l’eccesso di mediazione può avere effetti respingenti: le poesie divengono oggetto di studio, non di lettura. Per evitare tale rischio serve misura, ossia una interpretazione consapevole che non prevalga sul testo. Seguono questo criterio i profili, le traduzioni e le note che compaiono nel volume, aperto dalle lucide pagine di Rossi: chiarezza, informazione essenziale, niente gerghi. La varietà e la ricchezza delle voci poetiche superstiti ne risultano con evidenza: dalle elegie guerriere a quelle meditative, dalla poesia erotica a quella politica, dai lievi canti per il simposio ai grandiosi encomi corali, è il panorama di più secoli che scorre innanzi agli occhi del lettore (in difficoltà solo per i caratteri minutissimi).
I testi sono accompagnati da un commento che dà conto senza pedanteria anche della ricerca recente e dei problemi critici aperti, e discute con determinazione alcuni stereotipi devianti, come quelli relativi a Saffo (p. 169). L’intento è di collocare storicamente i testi, valorizzandone ora la distanza dai moderni, ora la vicinanza. La dimensione dei grandi carmi di Pindaro, accompagnati da danza e musica in un contesto festivo, è difficilmente recuperabile; più semplice accostare i testi destinati al simposio, quando raccontano ciò che accade nella sala (Senofane, p. 66), quando cantano l’amore o le lotte politiche, o quando si fanno più meditativi, come nel «leopardiano» Mimnermo (p. 26). La traduzione dei testi poetici greci pone problemi rilevanti, su cui ha scritto Federico Condello con grande chiarezza e ampia documentazione («Tradurre la lirica», in AA.VV., Hermeneuein. Tradurre il greco, Pàtron, 2009, pp. 31-65). Le poesie erano composte in una lingua artificiale con tratti particolari, anche dialettali, che le traduzioni moderne non possono trasferire alla lingua di destinazione. Si perdono così le parole in lingua lidia usate da Ipponatte, si abbassa la dizione sublime di Pindaro, e in genere si evita lo straniamento che il ricorso a una lingua speciale doveva ingenerare anche negli antichi. Le scelte di C. Di Noi sono, oltre che accurate e affidabili, efficaci. Anche quando verrebbe da non condividerle, si comprende che sono ragionate. Così quando in Archiloco si racconta di una bizzarra scena di seduzione, prima verbale, poi fattuale, un passaggio del dialogo con la ragazza è reso (p. 111) «Le infarcivo questi discorsetti», a fronte di un greco «Questo dicevo»: ciò sottolinea, prendendone le distanze, l’ambigua strategia del vanesio tombeur. Rare le concessioni alle parole solenni: spiccano i «bellici divaghi», in Bacchilide (p. 313), funzionali a rendere il tono solenne del racconto. Alcuni epiteti caratterizzanti impongono sfide ardue: nello stesso carme di Bacchilide, il servo del re Creso «dall’andatura femminea» (habrobàtes) allude allo stereotipo della «mollezza» (habrosyne) dei Lidi, non ad altro. Dipanare la densità dei testi condurrebbe a dilatarne le dimensioni, tradendone la misura, e questo rischio è saggiamente evitato. Ma bisogna anche guidare il lettore che non conosca il greco: in una famosa ode di Saffo, la dea Afrodite promette che l’amore che sfianca la poetessa sarà ricambiato: «Se fugge presto t’inseguirà, se doni disdegna, poi ne farà, se ora non ama, presto amerà, pur non volendo» (p. 173). Bella è la resa, ma solo dal greco si apprende che la persona coinvolta è una donna («anche se lei non vuole»).
Queste riflessioni sul problema del tradurre conducono all’appendice curata da Enrico Cerroni, che completa l’antologia. Vi è presente una ricca scelta di versioni italiane dei lirici greci, dal XVI secolo a Quasimodo (escluso). Questi componimenti di letterati (più raramente di filologi) fanno parte di un mondo «sommerso» (p. 370), ignorato. Più che la fedeltà, l’intento allora era lo stile, e l’impegno era di versare i contenuti dei testi dentro le forme, metriche, linguistiche ed espressive, della poesia italiana, dilatandoli con espansioni e ricreazioni e zeppe. Molti letterati, i cui nomi oggi sono spesso oscuri, si cimentarono con Saffo e Tirteo, con Anacreonte e Pindaro, rivestendoli a seconda dell’epoca con le finezze petrarchesche, le arditezze tardo barocche, le compiacenze arcadiche, con i metri delle ballate romantiche, le terzine dantesche o l’imitazione delle forme classiche. Tra loro, certo, anche Foscolo e Leopardi, Pascoli e Romagnoli, che operarono con consapevolezza differente. Tutti lavorarono quando la lingua poetica italiana era ben viva, ignari del suo novecentesco tramonto e delle esigenze «modernizzanti», poi irreversibilmente prevalse. Risalire a prima di Quasimodo, ritrovare in quelle traduzioni i «vanni» e le «pugne» e tutto l’italiano aulico, significa certo esplorare una stagione perduta: ma paradossalmente vi si può ritrovare quello «straniamento» linguistico che alla lettura dei poeti greci antichi può in fondo giovare.