Corre voce che i metropolitani amanti di Rossini, quelli che d’estate bazzicano il Festival pesarese a lui dedicato, si chiedano da tempo come mai al Teatro alla Scala si vedano pochi titoli del loro beniamino e per questi titoli si ripropongano per lo più allestimenti del passato. Il problema è Rossini, il Rossini buffo/semiserio o l’opera preromantica non seria in generale? Compresa L’Italiana in Algeri in scena in questi giorni, i dati dicono che negli ultimi 10 anni a Rossini la Scala ha dedicato 8 spettacoli: 7 opere (L’Italiana è già stata messa in scena nel 2011), di cui 2 serie (La donna del lago e Otello), che hanno beneficiato di nuovi, ancorché brutti, allestimenti, e 5 semiserie, 2 delle quali (La gazza ladra e Il turco in Italia) in allestimenti inediti degni di nota (il secondo bloccato alla prima dalla pandemia), mentre delle 3 riprese 2 sono da Jean-Pierre Ponnelle (classico per Rossini come Strehler per Mozart). Evitando ogni ingrato paragone con Verdi o Puccini, concludiamo che con Rossini la Scala è parca e tende ad andare sul sicuro. Sul sicurissimo nel caso de L’Italiana attuale, sia per il titolo che per l’allestimento. Quanto al primo, quando Stendhal vide per la prima volta questo autentico capolavoro semiserio di Rossini, che lo musicò in 18 giorni quando aveva appena compiuto 21 anni, esclamò galvanizzato: «Questa musica non è altro che una follia organizzata e completa».

LA DEFINIZIONE, diventata emblema dell’intero teatro buffo rossiniano, è inappuntabile se si pensa all’incredibile concertato finale del primo atto, in cui i cantanti si scatenano in una vertiginosa fuga in crescendo di suoni onomatopeici che illustra la loro confusione. La leggenda vuole che la trama sia ispirata a un fatto di cronaca: Antonietta Frapolli-Suini, formosa signora milanese, sarebbe stata rapita dai pirati algerini nel 1805, portata alla corte del Bey di Algeri Mustafà-ibn-Ibrahim, che si sarebbe perdutamente innamorato di lei, perché, come recita il libretto, le «femmine d’Italia son disinvolte e scaltre, e sanno più dell’altre l’arte di farsi amar». Mettendo in caricatura il dispotismo maschile con turbanti, babbucce a mezzaluna e ingenuità da «Pappataci», come aveva già fatto Mozart nel Ratto dal serraglio, Rossini e il librettista Angelo Anelli rappresentano il «flagel delle donne» Mustafà preso per il naso da Isabella, livornese tutta d’un pezzo abilissima nel farsi ubbidire dagli uomini, che gli fa rimpiangere la disprezzata sottomissione delle donne arabe.

L’ALLESTIMENTO è quello leggendario creato da Ponnelle a Düsseldorf nel 1973, approdato alla Scala lo stesso anno, per l’occasione ripreso da Grisha Asagaroff, attento a mantenere la cifra di irresistibile comicità dei movimenti mimico-musicali inventati dal regista francese prematuramente scomparso: gesti geometrici e coreografie sincopate che sembrano iscritti nelle note, accompagnati da prelibatezze scenografiche (l’harem), costumistiche (i pancioni rosa degli eunuchi) e registiche (la mangiata di spaghetti alla Totò). Un classico che rivive un po’ stancamente sotto la direzione a tratti disorientata di Ottavio Dantone, rivitalizzato dalla generosità degli interpreti, su tutti il mattatore Carlo Lepore (Mustafà), che rimpiazza egregiamente l’indisposto Mirco Palazzi. Notevoli anche Maxim Mironov (un Lindoro leggerissimo), Gaëlle Arquez (Isabella soave, che non fa dimenticare quella brunita dell’esordiente Anita Rachvelishvili nel 2011), Enkeleda Kamani (Elvira), Roberto de Candia (Taddeo), Svetlina Stoyanova (Zulma) e Giulio Mastrototaro (Haly).