Da lunedì 15, più della metà delle regioni saranno zona rossa. L’ordinanza firmata dal ministro della salute Roberto Speranza, in una giornata che fa segnare quasi 27 mila nuovi casi positivi al Coronavirus e 380 decessi, prescrive restrizioni di massimo livello per Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Veneto e la Provincia autonoma di Trento, che si aggiungono a Campania e Molise. La misura riguarda oltre il 70% della popolazione italiana e assomiglia molto a un lockdown nazionale. Le altre regioni sono in zona arancione tranne la Sardegna, bianca tranne zone rosse a livello comunale. L’aumento dell’incidenza del virus è generalizzato: nella settimana di riferimento (1-7 marzo) a livello nazionale si registrano 225 nuovi casi positivi ogni 100mila abitanti e un indice Rt pari a 1,16, ben oltre la soglia critica 1.

IL PRESIDENTE DELL’ISS Brusaferro non appare ottimista: «L’incidenza questa settimana sta crescendo e il prossimo monitoraggio certamente supererà i 250 casi ogni centomila abitanti». Rimane in bilico la Basilicata: la regione presenta l’indice di trasmissione Rt più alto d’Italia, 1,53, che la spedirebbe dritta dritta in zona rossa. «La regione – spiega il ministero – ha comunicato che l’indicatore è in via di consolidamento», cioè si fonda su dati incerti. Perciò ha chiesto «di considerare come meglio rappresentativo il valore di Rt ospedaliero», cioè di valutare l’andamento del contagio a partire dai ricoveri e non dai casi positivi. Usando questo indicatore, l’indice Rt scenderebbe a 0,22, il più basso di Italia. Ieri sera i tecnici della cabina di regina composta da ministero della Salute e Iss erano ancora al lavoro sul dossier.

L’indice Rt segnala che il contagio è in espansione in quasi tutto il territorio. Solo Umbria, Sardegna, Alto Adige e Calabria hanno un indice Rt inferiore a 1. Se si aggiunge che a livello nazionale si è superata la soglia critica di occupazione delle terapie intensive (30% dei posti letto), si comprende l’allarme lanciato dagli scienziati: «L’elevata incidenza, l’aumento della trasmissibilità e il forte sovraccarico dei servizi ospedalieri – scrivono gli epidemiologi dell’Iss nel rapporto – richiedono l’innalzamento/rafforzamento delle misure di mitigazione nazionali, anche anticipando ulteriori interventi di mitigazione/contenimento nelle aree a maggiore diffusione e particolarmente laddove circolino varianti». Gli esperti si riferiscono a quella sudafricana (P.1) e brasiliana (B.1.351), meno diffuse e più resistenti ai vaccini.

LE INFORMAZIONI raccolte sulle varianti risalgono a un mese fa e provengono da due indagini a campione svolte dai laboratori regionali. A fine gennaio il ministero della Salute aveva annunciato la nascita del «Consorzio Italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di SARS-CoV-2 e per il monitoraggio della risposta immunitaria alla vaccinazione». Sull’esempio di quanto avviene in Danimarca e nel Regno Unito, il consorzio avrebbe dovuto avviare un monitoraggio regolare delle varianti in circolazione in Italia, «utile oggi e utilissimo in futuro» secondo il viceministro Pierpaolo Sileri che lo aveva patrocinato. Nonostante la sua riconferma nel nuovo governo, dell’iniziativa non si è più avuta notizia: «Quella del consorzio è stata presentata come ipotesi di lavoro, ancora in itinere», ammette Brusaferro che avrebbe dovuto coordinarlo. Non è l’unico buco del monitoraggio.

LA «STRATEGIA DELLE 3 T» basata su test, tracciamenti e terapie di fatto non è mai partita. Nonostante 17 regioni su 20 dichiarino di effettuare «una regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti» in oltre il 90% dei casi positivi, la realtà sul terreno è ben diversa. Lo scrivono gli stessi epidemiologi dell’Iss: «L’incidenza nazionale nella settimana di monitoraggio – si legge nel report – si allontana sempre di più da livelli (50 per 100 mila abitanti) che permetterebbero il completo ripristino sull’intero territorio dell’identificazione dei casi e tracciamento dei loro contatti». Tuttavia, nessuno chiede conto alle regioni su questa discrepanza tra indicatori e realtà.

A FARE LE SPESE del mancato tracciamento è la scuola. Da lunedì circa 6 milioni di studenti di ogni ordine torneranno alla didattica a distanza. La chiusura si spiega con la crescita più veloce dei casi nelle fasce di età tra 10 e 19 anni. Ma il rapporto tra costo e beneficio del provvedimento è incerto. Dopo un anno di pandemia mancano ancora i dati: «Per ciò che concerne l’analisi dei contagi intrascolastici non si hanno, al momento, informazioni; non esistono stime di trasmissibilità nelle scuole e quindi non è possibile analizzare l’effetto della riorganizzazione scolastica alla ripresa delle attività didattiche dopo la scorsa estate» si legge in un verbale del Cts di fine gennaio ora reso pubblico. L’ammissione era di Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler a cui da un anno il governo chiede previsioni impossibili in assenza di informazioni sul contagio nelle aule. La scuola in presenza per tutti gli studenti, un solenne impegno del governo Draghi, si rivela una promessa mancata.