Occhi lucidi, abbracci e soprattutto grande determinazione hanno accolto ieri, alle 13.40, la sentenza di rinvio a giudizio per gli imputati del cosiddetto processo per il Plan Condor, un’azione di coordinamento del governi sudamericani durante le dittature degli anni ’70, supportata dalla Cia, e volta ad annientare, attraverso il terrorismo di stato, le opposizioni.

Il giudice per l’Udienza preliminare Alessandro Arturi del Tribunale di Roma dopo due ore di Camera di consiglio ha deciso di rinviare a giudizio una ventina di militari per i reati di omicidio e sequestro di persona nei confronti di cittadini italiani, con doppia nazionalità in Argentina, Cile e Uruguay, e perpetrati in varie nazioni dell’America latina durante quel periodo oscuro. Il processo inizierà il 12 febbraio 2015 alle 9 presso l’Aula bunker di Rebibbia.

L’Udienza preliminare che si protraeva già da mesi per le difficoltà a notificare le accuse agli imputati, si è chiusa quindi ieri con un rinvio a giudizio per i militari cileni, peruviani, boliviani e alcuni degli uruguayani. A proposito di questi ultimi alcune posizioni sono state stralciate. Si tratta di due situazioni differenti. In un caso si chiederà al ministro della Giustizia italiano se, nel rispetto del secondo comma dell’art. 11 del codice penale italiano, sia possibile rinnovare i casi riguardanti le vittime Gerardo Gatti, Maria Emilia Islas Gatti de Zaffaroni, Juan Pablo Recagno Ibarburu e Bernardo Arnone, già giudicati in Uruguay.

Un’altra situazione riguarda invece Edmundo Sabino Dosetti Techeira, Julio Cesar D’Elia e Raúl Gambaro già condannati in Uruguay per i quali si dovranno sollecitare chiarimenti sui motivi della condanna. Per una decisione su queste ultime due posizioni, si è fissata un’udienza per il 19 dicembre 2014.

Il giudizio, tanto atteso dai familiari delle vittime, arriva a una decina d’anni dall’inizio dell’inchiesta del Procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e che all’origine vedeva coinvolti oltre 140 accusati. Tra le vittime, il detenuto italo-cileno Omar Venturelli ex sacerdote sospeso «a divinis» dal vescovo Bernardino Piñera per aver guidato i nativi mapuche nell’occupazione delle terre regalate ai coloni europei, poi professore all’Università Cattolica di Temuco e visto l’ultima volta il 10 ottobre 1973 nella Caserma Tucapel. Per il caso di Venturelli era già stato celebrato un processo a carico di Alfonso Podlech assolto per insufficienza di prove. Presente ieri nell’Aula 6 anche Margarita Maino, sorella di Juan, nato a Santiago del Cile nel 1949 e militante del Mapu (Movimiento de Acción Popular Unitaria), arrestato a Santiago dalla Dina il 26 maggio 1976. Cristina Mihura moglie di Armando Bernardo Arnone Hernández sequestrato il 1° ottobre del 1976 a Buenos Aires, militante del Partido para la Victoria del Pueblo e ancora desaparecido era soddisfatta.

In America latina negli ultimi anni, sull’onda del cambiamento che sta attraversando il subcontinente si stanno aprendo i processi contro i repressori. Alcuni paesi hanno anche cancellato le leggi di impunità che hanno impedito di ricercare la Memoria, la verità e la giustizia dopo la fine delle dittature. Permangono comunque alcune criticità che feriscono i familiari delle vittime e rischiano di mettere in crisi i governi più «tiepidi» su tema.

È il caso uruguayano i cui due governi frenteamplisti, Tabaré Vasquez e Pepe Mujica, sono accusati dalle associazioni di familiari di non avere fatto sufficienti sforzi per superare la politica dell’impunità. Sulle prossime elezioni politiche e presidenziali uruguayane del 26 ottobre pesa anche questa eccessiva moderatezza.