Il Rapporto 2020 dell’Istat ci ha consegnato una fotografia del Paese, mostrandoci tuttavia solo un aspetto dello shock subìto (e di questi rapporti dell’Istat, un giorno, forse si dovrebbe parlare più a fondo).

La pandemia da Covid-19 ha colpito fasce e aree in modo differente e il lockdown – e il conseguente blocco delle attività – sono intervenuti su un’economia già in «decelerazione», se non ferma, infierendo su un corpo sociale già disuguale e disorientato. Il governo e le istituzioni, pur navigando a vista, hanno portato un Paese che si è, suo malgrado, chiuso in casa e stretto attorno alle sue bandiere, nella cosiddetta «fase 2» cercando di coniugare la riapertura delle attività con il contenimento del contagio e la sua ripresa.

E ora, che si dovrebbe dar vita al cantiere della ripresa, si affastellano piani e proposte, annunci roboanti accompagnati da slogan ormai desueti, nel nome del «rilancio», della «semplificazione» e addirittura della «rivoluzione».

Ma la sensazione è che il compito appare soverchiante e il timore che, nel barcamenarsi della politica quotidiana, il governo non sia capace di darsi indirizzi strategici e una direzione chiara è più che mai forte.

Il Paese è in panne, ma la benzina c’è: l’Europa, non solo ha messo in mora i vincoli del patto di stabilità, ma ha già messo su piatto risorse e strumenti che solo un anno fa non avremmo mai immaginato. Basti ricordare che l’ultima manovra – di ben 30 miliardi di euro – sembrò grande cosa, anche se solo 7 erano destinati ad interventi attivi, contro i 23 che dovevano evitare le famose clausole dell’Iva.

Ora si parla di 170 miliardi che potremmo avere a disposizione per i prossimi anni, un ammontare enorme. Ma se il carburante per ripartire c’è, è il motore che fatica, logoro nelle sue componenti anchilosate, fossilizzate da anni di mancato rinnovo, di scarsa manutenzione e di impoverimento.

E il governo, con il Paese, appare fermo, in attesa, conscio di trovarsi sul precipizio: certo, ahimè, «stiamo fermi, così non lasceremo nessuno indietro», dice Altan. Ma dobbiamo muoverci, in fretta, perché le ferite portano alla cancrena, se non vengono curate. Perché il sonno dell’equità genera il mostro della rivalsa sociale in nome dell’egualitarismo.

Siamo entrati nella pandemia, lo avevamo detto, con un Paese già diseguale, con differenze territoriali tra nord e sud, tra centri e periferie e tra ceti sociali, che negli anni erano andate solo aumentando. L’economia, già nel 2019, aveva rallentato: l’occupazione aveva smesso di aumentare, la nostra bilancia commerciale aveva iniziato a rifiatare, gli investimenti pubblici e privati al palo, le disuguaglianze di reddito immutate.

Quel governo che aveva sbandierato la «fine della povertà» ha saputo solo partorire il topo di un provvedimento che ha finito per arginare un dramma sociale ormai cronicizzato, lasciandoci però in eredità provvedimenti iniqui sotto l’egida della «sicurezza», infierendo su quelle poche migliaia di disperati che arrivano sulle nostre coste e su chi li assiste.

Ora, le previsioni degli organismi nazionali e internazionali ci dicono che l’Italia perderà tra l’8 e il 12 per cento del Pil in un anno, come altri, più di altri. Giusto ieri la Commissione europea ha reso noto che per noi si prospetta il calo più vistoso tra i Paesi Ue, un crollo.

Eppure, nel conto dei contagiati da Covid-19, l’Italia è seconda alla Spagna e alla Gran Bretagna, in Europa, dove pure Francia, Germania, Belgio, Portogallo, Paesi Bassi e Svezia sono stati duramente colpiti. Ma l’Italia pagherà un prezzo economico più alto. Forse perché da noi il lockdown è stato più compatto e generalizzato?

Le ragioni sono certo molteplici.

Ma se c’è un motivo per cui noi perderemo più degli altri è che noi siamo arrivati qui già sguarniti, con una struttura produttiva in affanno, centinaia di imprese come blade runners, sempre sul punto di sopravvivere o morire, con una quota enorme di lavoratori precari e instabili, se non «invisibili», con una larga fascia di famiglie che fatica ad arrivare alla fine del mese, con una domanda asfittica e un’offerta smorta.

Il Covid-19, ce lo racconta Istat, ha colpito i più poveri e meno istruiti, i più esposti, e da noi sono tanti. Ha agito su un sistema sanitario spolpato da anni di mancati investimenti, senza servizi sul territorio. E il lockdown è andato a colpire percettori di reddito lasciati fuori dal sistema, con effetti devastanti.

La direzione di marcia, ce lo hanno già ricordato in tanti, dovrebbe essere chiara. Eppure, si cincischia. I media, la stampa mainstream, sono fossilizzati sulle dinamiche politiche interne al Palazzo, su falsi problemi (Mes sì, Mes no).

Ma sono le tendenze di lungo periodo a cui si dovrebbe guardare, senza esitazione: ridurre la forbice tra super ricchi e poveri e «quasi poveri”» agire sulla tassazione progressiva, sui capitali, investire in ricerca, sviluppo e innovazione, agire sui differenziali infrastrutturali, dotazioni di banda larga e dispositivi, scuole, università, sanità, credito per le startup, regolarizzazione del lavoro, cuneo fiscale.

È una lista arcinota, per una classe politica che non sembra saper ascoltare. Che si lascia tirare la giacca nel cabotaggio quotidiano, figlia di una stagione cui ci ha portato la cecità neoliberista di un mondo a misura di pochi cui non ha saputo rispondere che «abolendo la casta», dove «uno vale uno», dimenticando competenze e specialismi.

Dimenticando che una società equa non è un lusso democratico, ma la ragione fondante stessa della democrazia.