Il mondo nello sguardo dell’animale, o forse nel sentimento della sua anima. Il film di Pietro Marcello ha il titolo di un melò, di una ballata popolare, di una canzonetta neomelodica: Bella e perduta. Pure se è l’Italia e non una fanciulla la protagonista della storia, e più in genere questo nostro tempo confuso di cui le immagini del regista restituiscono l’ambiguità. E senza moralismi né posizioni binarie, male/bene, ma scavando in un sentimento antico – che nulla c’entra con la tradizione in nome della quale si piomba solo nel caos oscurantista – che quello sguardo animale, e la sua distanza dalle cose permette.

Come appare la nostra società dall’occhio umido di Sarchiapone, bufalotto che dalla nascita è condannato a morire perché improduttivo? Nella Terra dei fuochi, il casertano, i maschi del bufalo che non servono per il latte vengono infatti eliminati. Lo salva Tommaso Cestrone, pure lui come quel bufalo un «outsider» laggiù. In mezzo alla «monnezza», ai rifiuti tossici con cui fa affari la camorra, ai molti (troppi) cittadini silenziosi (conniventi?) si è intestardito a difendere l’antica reggia borbonica di Carditello abbandonata a sé stessa, scontentando camorristi, delinquenti, e pure istituzioni e ministeri. Lui è determinato, nonostante minacce e solitudine, vive lì e aspetta che qualcuno gli risponda. Ma la notte di Natale di qualche anno fa, pochi giorni prima che il ministro Bray firmi un accordo perché la Reggia sia ceduta al Mibac, Cestrone muore. Il film poggiava su di lui, Marcello però non si è arreso e ha trasformato narrativamente questa improvvisa assenza in qualcos’altro. Cestrone, il pastore,l’angelo di Carditello, diviene l’espressione simbolica di una resistenza fatta di solidarietà e testardaggine, una figura antica proprio come il bufalo che del film è adesso il protagonista, voce narrante (di Elio Germano), testimone capace di esprimere la «semplicità» complessa del reale – anche se, come ci dice Le mille e una notte di di Miguel Gomes, oggi in tempi di crisi gli animali qualche volta parlano ma nessuno li ascolta mai.

Marcello (insieme nella scrittura a Maurizio Braucci e accompagnato dal ritmo magico del montaggio di Sara Fgaier), che quella terra la conosce da vicino (è nato a Caserta) sa modularne tensioni e conflitti senza cadere nella trappola sempre presente della cronaca. Va al di là sin dalle prime sequenze, straordinarie, che ci portano in un universo altro, un paradiso o un inferno o chissà di Pulcinella – kafkiani – nelle viscere del Vesuvio il cui capo ne spedisce uno (è il bravo Sergio Vitolo ) sulla terra a occuparsi del giovane bufalotto.

 

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E lui arriva, maschera della commedia e icona popolare divenuta ormai pupazzetto del presepio, senza nemmeno l’irruenza fracassona dei burattini della domenica. Ambiguo e servile, di falsa simpatia, che ha perduto nell’immaginazione popolare le sue radici più remote, appare forse stanco questo Pulcinella invecchiato come un segno vuoto. I due iniziano un viaggio, road movie di falso movimento, tra luoghi e persone fuori dal tempo, uguali nel passato e nel presente, in un paesaggio che è quello del mito, della leggenda, e insieme come nella lingua di Ortese mai avulso dalla realtà.

 

 

Il paesaggio di una geografia del sentimento punteggiato da dolori, meschinità, contraddizioni. Finché Pulcinella non decide di uscire dal mito e diventare uomo, non sentirà più la voce del bufalo come non era riuscito a sottrarlo al suo destino. Spiazzante, anche imperfetto, che è un punto di forza e la sua cifra politica, il film di Marcello lavora tra le crepe della realtà, e del nostro tempo, ne scopre i nodi segreti senza forzature ideologiche. E di un un mondo in cui «essere bufalo è un arte» rivela i paradossi, e le possibili zone di resistenza.