Il presidente Obama ha chiamato e il premier Renzi, a suo modo, ha risposto. Dopo l’appello di Washington per un maggior coinvolgimento italiano nella lotta all’Isis, Roma ha ordinato l’invio di 450 soldati a protezione della diga di Mosul, già danneggiata dalla guerra e bisognosa di ristrutturazione. Questo farà l’Italia: garantire la sicurezza mentre la ditta italiana Trevi, dietro un appalto da due miliardi di dollari, rimetterà in sesto una diga strategica, che rifornisce d’acqua non solo Mosul ma ampie porzioni di territorio iracheno e il cui eventuale crollo minaccerebbe Baghdad e le province di Ninawa e Kirkuk.

Le truppe si aggiungeranno ai 750 addestratori militari dispiegati nel dicembre 2014 a Erbil, Kurdistan iracheno, a favore dei peshmerga. I soldati italiani non avranno un ruolo attivo nel conflitto in una delle aree più calde del paese, contesa da più di un attore regionale, quindi, ma proteggeranno una commessa per cui già i precedenti esecutivi erano intervenuti. Attiva in Iraq già dal 2008 con la divisione Drillmec che siglò un contratto da 100 milioni di dollari per attività di perforazione, nel 2011 la Trevi era in lista per aggiudicarsi un ricco appalto per la costruzione di una parte della diga. Nell’autunno dello stesso anno, però, la ditta di Cesena aveva visto sfumare il super appalto perché affidato alla tedesca Bauer Ag, nonostante i negoziati all’interno della Commissione mista Italia-Iraq, sotto la presidenza dell’allora ministro degli Esteri Frattini.

Ora quell’affare torna in ballo. Ieri la Trevi è intervenuta con un comunicato nel quale precisa di non aver ancora ottenuto la commessa ma di essere «l’unica impresa qualificata in corsa per l’aggiudicazione dei lavori di manutenzione della diga. Il processo di negoziazione dei termini e delle condizioni della commessa con il governo iracheno è nelle sue fasi finali». Si tratterà di un appalto di 18 mesi per la prima fase di interventi di emergenza.

Mosul resta strategica per tanti. Accanto ai soldati italiani ci saranno i peshmerga di Erbil, accusata di voler mettere le mani sulla seconda città irachena o almeno di volersi prendere parte del distretto. L’arrivo di 150 soldati turchi all’inizio di dicembre – giustificato da Ankara con la necessità di addestrare i kurdi – ha provocato l’ira di Baghdad che teme un avanzamento del tandem Turchia-Krg per il controllo di una città strategica dal punto di vista politico ed economico, soprattutto in vista della paventata frammentazione dell’Iraq in regioni federali autonome.

Il caso non è stato ancora risolto: tre giorni fa il governo turco ha ritirato un piccolo gruppo di soldati e li ha ridistribuiti in altre zone, per ora sconosciute. Ma a Baghdad non basta: l’esecutivo di al-Abadi chiede «il completo ritiro» dalla base di Bashiqa, a 20 km da Mosul, e «rinnova la necessità di una risposta dalla Turchia alla richiesta irachena di lasciare il territorio del paese». Che ora ha dalla sua anche la minaccia terroristica: ieri, secondo la tv statale turca Trt, quattro soldati turchi sono stati feriti a Bashiqa da un missile dell’Isis, a cui le truppe di Ankara hanno reagito aprendo il fuoco.

A preoccupare il governo iracheno è il potenziale rischio insito nell’arroganza turca. Dopo le milizie sciite vicine all’Iran, dopo l’Ayatollah al Sistani e dopo il potente religioso sciita Moqdata al Sadr, ora a minacciare un intervento contro i soldati turchi è l’ex premier al-Maliki che, seppur dimissionato, mantiene una certa autorità su gruppi armati e settori della società che sotto la sua ala hanno prosperato. Lunedì al-Maliki ha accusato la Turchia di voler separare Mosul dal resto dell’Iraq, «un sogno che non diventerà mai realtà». Per farlo restare un sogno ha chiamato all’appello i leader tribali perché uniscano le loro forze a quelle delle milizie sciite e dell’esercito iracheno.

La conseguenza di un eventuale perdita di Mosul sarebbe un ulteriore indebolimento del governo centrale, già messo in pericolo dal protagonismo del Kurdistan iracheno. Forse per togliere a Erbil gli strumenti di propaganda usati in questi mesi di screzi per vendere in autonomia il greggio all’estero, ieri Baghdad ha approvato il budget per il 2016 e deciso di fissare al 17% (18mila miliardi di dollari) la quota destinata al Krg, primo passo verso lo scongelamento del trasferimento dei finanziamenti.

La ripresa di Mosul è tanto fondamentale da essere usata come “esca” anche dagli Usa. Ieri il segretario alla Difesa Usa Carter arrivava a Baghdad, in una visita a sorpresa: ha incontrato il governo con cui ha discusso dell’utilizzo di elicotteri Apache per le controffensive su Mosul e Ramadi, dopo il no di al-Abadi al dispiegamento di truppe statunitensi in territorio iracheno e l’alleanza militare con Mosca e l’Iran.