La crisi economica iniziata nel 2008 trascina con sé i suoi effetti sul tessuto socio-economico e demografico.

Nel libro Come siamo cambiati. Gli italiani e la crisi Roberta Carlini descrive alcuni dei tratti principali di questi cambiamenti, attraverso una narrazione a forma d’inchiesta, che affronta tre colonne portanti della nostra società: la famiglia, il lavoro, la scuola (Laterza, pp. 172, euro 13). Un libro che, descrivendo il presente, parla anche di futuro, perché gli effetti di oggi saranno le cause dei cambiamenti di domani.

L’invecchiamento della popolazione è tra i temi spesso usati per alimentare la contrapposizione tra padri e figli o per lanciare una proposta che allunghi ulteriormente l’età pensionabile. Non si torna mai indietro a capire perché nel 2014 il tasso di natalità è stato il più basso dall’unità d’Italia, così come era stato ai minimi storici nel 1995. La politica ha ormai l’abitudine a rivolgersi ai trentenni con attributi sprezzanti pur di negare la pervasività della precarietà economica e dell’incertezza che questa genera nei comportamenti privati e collettivi. Una società che torna indietro anche nella composizione della famiglia.

In un periodo in cui si chiede fortemente un salto di civiltà al paese, con il riconoscimento dei matrimoni omosessuali, le nuove famiglie complessivamente diminuiscono. Da un lato, diminuiscono i matrimoni, religiosi e civili, dall’altro, le convivenze, mentre aumentano le persone che tra i 18 e i 30 anni vivono nelle famiglie d’origine. Famiglie di origine che si allargano a più nuclei, includendo i nonni e, per le famiglie straniere, anche altri parenti. Mentre le scelte di convivenza guardano soprattutto alla condizione attuale, quella relativi ai matrimoni ha un carattere intertemporale. Molti vedono la separazione o il divorzio come un vero e proprio lusso, che non tutti possono permettersi. Ma ci sono anche le famiglie che resistono, anch’esse travolte e stravolte dalla crisi.

Trend al ribasso

L’effetto più immediato del crollo della produzione industriale nei primi sei anni di crisi è stata la drastica riduzione del numero di occupati maschi. L’occupazione maschile tra il 2008 e il 2014 è diminuita complessivamente di un milione di unità, il divario di genere legato all’occupazione si è ridotto, ma al ribasso. Soprattutto nella seconda fase della crisi, quella post 2012, il numero di donne occupate è aumentato, soprattutto nelle professioni non qualificate e nei servizi, lì dove la quota di precarietà è più elevata. Ma quel reddito adesso è indispensabile: per questo le donne tornano a lavoro o iniziano a cercarlo, accontentandosi di part-time involontari. Non sono state le riforme dei governi a risolvere la questione dell’occupazione femminile, che rimane irrisolta, bensì il bisogno materiale alla sopravvivenza. Così accade che gli effetti del mercato del lavoro si ripercuotono sulle famiglie e i tradizionali ruoli al loro interno. Le donne, ancora poche, lavorano, i compagni o mariti disoccupati rimangono a casa.

Entrano in crisi anche i modelli di consumo, tra cui quello immobiliare, che tra il 2008 e il 2014 si dimezza. L’austerità imposta dall’alto si trasforma per necessità in austerità dei consumi, nel senso della misura che frena l’ascesa dell’iperconsumo dei primi anni 2000. La spesa corrente diminuisce per tutte le fasce di reddito, ma è per quelle più basse che questo rappresenta o può rappresentare un pericolo: il rischio di deprivazione alimentare. È qui che riemerge la questione generazionale, con i nonni che provvedono al consumo dei nipoti, in un paese strutturalmente caratterizzato da un welfare premoderno – e lacerato da un’ondata di austerità. Il welfare generazionale ha operato ancora una volta come cuscinetto contro la povertà per le famiglie giovani, soprattutto quelle precarie, senza risparmi da poter ridurre per far fronte alla crisi. Famiglie che potranno sperare nella ripresa per emanciparsi dall’aiuto dei genitori, una ripresa che nel medio e lungo periodo si fa sempre più incerta a causa delle trasformazioni strutturali che altri effetti della crisi portano con sé.

Ad esempio, il drastico calo delle immatricolazioni all’università suona come un campanello d’allarme assordante, sebbene ignorato dalla politica nazionale, che di anno in anno disinveste nell’istruzione pubblica. A farne le spese non sarà soltanto la crescita potenziale, ma anche la democrazia, che potrà vantare su un tessuto sociale sempre meno coinvolto nei processi decisionali e produttivi. Dai dati emerge infatti che coloro che abbandonano gli studi o semplicemente non si iscrivono all’università provengono da famiglie meno abbienti e/o dal Sud. È il regresso, bellezza! Il merito ereditario. L’operaio non avrà il figlio dottore, l’operaio avrà un figlio disoccupato o sfruttato. Anche se laureati, i figli delle famiglie meno abbienti non possono permettersi di attendere grandi offerte di lavoro, per questo accettano fin da subito lavori precari, instabili, mal pagati, che influiranno con buona probabilità sulle prospettive di carriera future.

Società impoverita

La crisi e la sua gestione hanno depennato dall’agenda politica l’idea di giustizia sociale, di progresso. Viviamo nel terzo paese più diseguale dell’area Ocse e questo non pare turbare il governo italiano. Se le disuguaglianze economico e sociali hanno radici ben più lontane e radicate, è con la crisi che il fenomeno è tornato in auge, nonostante in Italia non abbia affatto trovato terreno fertile.

Così nel 2014, il 5% delle famiglie più ricche detengono oltre il 35% della ricchezza privata totale. Il 20% più povero non detiene nulla se non il rischio di povertà futuro. La narrazione dominante in Italia guarda il dito e non la luna, contrapponendo anche in questo caso padri e figli, senza analizzare quanto Roberta Carlini ci racconta: un 27enne nel 2012 guadagna il 26% in meno di un 27enne nel 1993, di questi ultimi solo il 23% aveva un lavoro atipico contro il 44% del primo.

La ricchezza media dei neo trentenni oggi è circa la metà dei trentenni di ieri. Da questo ultimo capitolo del libro bisognerà ripartire per riaffermare definitivamente i termini della questione sociale.