Considerato una scintillante promessa del partito democratico, in quest’estate pre-primarie, il senatore del Minnesota Al Franken si sarebbe trovato a zigzagare tra fiere paesane in Iowa, comizi sindacali in Michigan o a spaccare chele d’aragosta in New Hampshire – come i 20 e più candidati che stanno disputandosi la «missione impossibile» di opporre Donald Trump nel 2020. E, in una piccola folla eterogenea che include anche la spiritual guru Marianne Williamson, sarebbe stato un candidato estremamente credibile. Tutto questo è cambiato nel 2017 quando, nel giro di tre settimane, Franken è stato costretto a dimettersi, accusato dalla conduttrice di un talk show conservatore, di averla costretta a baciarlo (durante uno sketch comico inscenato per le truppe, nel 2006) e altre sei donne (non identificate) hanno citato episodi di eccessiva familiarità fisica da parte del senatore.

Nota per i suoi reportage su Cambridge Analytica, i fratelli Koch, e ( con Ronan Farrow) l’articolo che ha provocato le dimissioni del procuratore di New York Eric Schneiderman, la giornalista investigativa Jane Mayer ha dedicato un lungo pezzo a «Il caso di Al Franken» sull’ultimo numero del «New Yorker». Nel pezzo, non solo Franken – da allora invisibile – si dichiara pentito di aver ceduto alle pressioni del partito offrendo le sue dimissioni prima di un’inchiesta: parecchi dei suoi ex colleghi del senato (tra i più autorevoli: Patrick Leahy, Hedi Heitkamp, Tammy Duckort, Jeff Merkley, Bill Nelson, Dick Durbin e l’ex presidente Harry Reid) sostengono di aver fatto un errore, forzando Franken ad andarsene in fretta e furia, sulla base di illazioni mai indagate ufficialmente.

Al tempo, 75.000 persone firmarono una petizione online perché Franken revocasse le dimissioni. Chi scrive – come centinaia di altri newyorkesi – chiamò in segno di protesta l’ufficio del senatore di NY Kirsten Gillibrand -la prima ad aver dichiarato che Franken doveva dimettersi, con una mossa giudicata chiaramente opportunistica.
Chi si aspettava che l’affascinante articolo di una reporter rispettata come Mayer aprisse un dialogo su certe esecuzioni sommarie effettuate nello spirito del # MeToo, si è sbagliato. Gillibrand -la cui campagna per la nomination democratica sta languendo- non solo non si è pentita, ha riposto che la pochezza delle sue prospettive elettorali è da imputarsi non alla sua incapacità di candidato – ma al backslash riservatole dai supporter di Franken.

In un articolo del «New York Times», scritto nello spirito di una caricatura della «Pravda», in risposta al testo di Mayer, altri membri del Senato (tra cui l’attuale presidente Chuck Schumer) e una maggioranza di candidati alla nomination si sono affrettati a far rango: Franken doveva dimettersi, non ci sono ripensamenti. Sottointeso, in questo zelante sfoggio di pragmatismo politico, il credo che qualsiasi sacrificio è legittimo in nome del mandato di rimpiazzare Trump alla Casa bianca. L’orribile attuale occupate di 1600 Pennsylvania Avenue è intanto sopravvissuto tranquillamente (oltre che a Mueller) all’ultimo scandalo sessuale in cui i democratici si auspicavano di trascinarlo, legato all’arresto del finanziere newyorkese Jeffrey Epstein per abuso e sfruttamento di minorenni. Che Trump sia rieletto o meno (qui dilaga ormai una depressa rassegnazione), ci vorranno anni per mitigare l’effetto dell’intransigenza che contrassegna le culture wars in cui si stanno dibattendo gli Stati Uniti, il partito democratico in particolare.

«Kevin Spacey non deve essere esonerato a Hollywood nonostante il suo procedimento penale sia concluso», era il titolo di un editoriale (a firma Caroline Framke) con cui «Variety» ha accolto la notizia che le accuse contro Spacey erano state ritirate da chi le aveva sporte, in un tribunale del Maine. Come nel Massachusetts dei puritani, e nella Hollywood del maccartismo, le nuove liste nere esautorano, oltre che il buon senso, anche le corti.

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