«Marònna re la grazia/ c’ambraccio puort’ Grazie/ a te vengo per grazia/ o Maria, famme grazia! Grazia, o Maria,/ comme te féce lu Pateterno/ca te fece mamma re di Dio/Famme grazia, o Maria». L’invocazione caratteristica del Resénio, il rosario in dialetto procidano, ha accompagnato per decenni l’uscita delle barche da pesca in mare, su quel lembo di terra con baie e scogli che sembra quasi attaccato alla terraferma, un pezzo dell’anello d’isole a chiusura del golfo, la porta del regno di Napoli per la posizione strategica.

Con la voce cantilenante delle donne a chiedere la protezione per gli uomini obbligati a cercare fortuna tra le onde blu. La devozione dei marinai locali verso la Madonna delle Grazie è antica ed è giunta, con un filone ininterrotto, fino ai nostri giorni. Celebrata oggi nel mese di luglio con preghiere e funzioni dedicate, con quella carezzevole nenia che sale verso la chiesa, giallina e rotonda – edificio tipico dell’età barocca, con pianta a croce greca, il Santuario di S.Maria delle Grazie Incoronata – eretta nel 1679 sulla base di una precedente cappella di culto già esistente nel 1521 (e probabilmente con la tela attualmente sull’altare maggiore).

GLI ABITANTI chiamavano la piazzetta antistante Semmarezio (deformazione di Santa Maria), rinominata Piazza dei Martiri, dopo che i Borboni impiccarono il primo settembre 1799 sedici patrioti, rei di aver aderito, nell’isola, alla nascita della Repubblica Napoletana. Le loro spoglie riposano nella sagrestia della chiesa che ospita anche i resti di un capodoglio, un leggendario miracolo della Vergine che salvò un pescatore col suo gozzetto che era stato attaccato dal cetaceo nel Canale di Procida. Esempi di dura vita isolana in questo diadema tufaceo, molto simile al versante flegreo, d’origine vulcanica (coi residui di alcuni crateri) dove i contadini provano a strappare alla terra i gustosi prodotti ortofrutticoli (il vino di Procida è rinomato già nell’800 e immortalato nelle canzoni napoletane classiche) e tanti marinai, nel golfo e più lontano, a costruire la loro vita.

Più piccola delle tre dell’arcipelago campano, Procida è stata nominata capitale della cultura 2022, una bella capriola per un’isola selvatica e scontrosa, molto gelosa delle sue tradizioni che però si è aperta al turismo da svariati decenni, nonostante un tracciato di stradine strette, molte falesie, poche spiagge e tanta folla, il paradisiaco scenario della Corricella (dove i benestanti posillipini arrivano in barca a vela, prendono il sole, fanno il bagno, pranzano e tornano a casa, tutto in giornata), i diecimila residenti abituali che si decuplicano d’estate.

DA QUALCHE SETTIMANA è stato pubblicato Procida Ispira. Un’isola crocevia di culture (Nutrimenti, pp. 114, euro 16, con ricco apparato fotografico), la dichiarazione d’amore di Elisabetta Montaldo, costumista/pittrice e Donatella Pandolfi, fotografa/restauratrice, che si sono trasferite da anni nel feudo medievale dei Da Procida, Cossa e D’Avalos, battendosi per la sua valorizzazione (già in campo con l’appello «Salvare Procida» nel 2007, contro la cementificazione e il traffico).

Hanno messo insieme culture e presenze di artisti, scoperte di archeologi e pirati, invenzioni di poeti e scrittori, facendone una storia vivace dell’isola, dai navigatori dell’età del ferro alle influenze islamiche, dal primo latin lover Gian da Procida raccontato da Boccaccio alla primitiva morantiana L’isola di Arturo, i capitani del mare della gloriosa armatorìa procidana di ’700 e ’800, per arrivare alle realtà odierne. Tanti spunti meritevoli d’approfondimento, dal cinema alla letteratura, dall’architettura ai personaggi che hanno calpestato il suolo delicato di questo isolotto densamente abitato, luogo di passaggio di fenici, saraceni, aragonesi, borboni, francesi, inglesi e immigrati asiatici. Un’area di sosta necessaria per i popoli del mare.

TUTTI CONOSCONO quell’affastellamento di architettura spontanea, le marine con casette una dietro l’altra e una sopra l’altra, dai colori diversi dalle tonalità chiare per fare in modo che i marittimi, tornando dalla pesca o dalle giornate in mare, potessero riconoscere subito da lontano la propria casa, attorcigliata dalle terrazze con le volte ad arco, i vefii, e dalle scalinate ripidissime. Così Toti Scialoja, discendente alla lontana di procidani, vede e sogna i colori della sua pittura: rosa ineffabile, ocra gialla svaporata, terra di Siena impallidita, celeste frastornato. E i grandi architetti Luigi Cosenza e Bernard Rudofsky realizzano nel 1970 un piano territoriale paesistico.

Oggi, dopo mezzo secolo, quell’alveare multicolore ha perso la funzione d’uso ed è in perenne trasformazione. Persino il famoso critico d’arte Cesare Brandi comprò una casetta contadina sulla penisola di Pizzaco, frequentandola per anni e combattendo l’abusivismo crescente. E rimanendo incantato dai costumi tradizionali che esaltano gli occhioni scuri e la pelle olivastra di derivazione araba, la seduzione di quell’orientalismo che fece Procida meta del Grand Tour e ispirò il manifesto romantico di Lamartine, Graziella.

«UNA PEZZUOLA DI SETA screziata di vari colori le stringe la fronte e le cade rovescia dietro il capo, le contiene il seno un giubbetto con fregi d’oro da cui scende la gonnella di seta cremisino con una larga fascia di velluto nero al lembo, il grembiule con arte quasi sprezzata le rileva il fianco colmo e grazioso e infilzata alle braccia cade giù dietro le spalle impicciolendosi nei fianchi fino al lembo della veste la camiciola di seta con gheroni d’oro». Così Peppe Barra descriveva l’antico abito femminile, il tributo alle regine del mare, le donne impegnate nella famiglia e nei traffici, le giovani isolane dal fascino leggendario che ispirano balli europei «a la procidane». E sua madre Concetta, cantatrice ufficiale dell’isola nonché attrice con Eduardo e De Simone, ha raccolto tante ballate popolari che sembrano filtrare nel punto più alto della latina Procyta, i quasi 100 metri, del tenebroso penitenziario, ex convento ora in via di trasformazione in resort museale.

In un panorama mozzafiato di suprema bellezza dove il rumore del vento, tra le gloriose mura, sembra sussurrare ritornelli d’antan, «Che nferta me farai, bella signora,/ vergine bella e madre ‘e dio,/ vulesse che chiuvesse maccaruni,/ che prendere la via caserattata,/ e l’acqua de lu mare vino annevato / manda la ‘nferta e mandala bona/ ca Dio ce la perdona».