Francesco Pigliaru è il nuovo presidente della Sardegna. Il candidato del centrosinistra ha ottenuto il 42,6% dei voti, battendo Ugo Cappellacci, il leader del centrodestra, che si è fermato al 39,8. All’outsider Michela Murgia, che i sondaggi della vigilia davano al 20%, è andato il 10,4% dei consensi. Alle urne si sono recati solo il 52% dei sardi, con un’astensione dal voto che non ha precedenti. Il Pd, con il 22,02%, è il primo partito, seguito da Forza Italia, che si attestata al minimo storico nell’isola, il 18,47%. Nella coalizione che ha sostenuto Pigliaru, Sel ha il 5,15% e la lista comune tra Rifondazione e Partito dei comunisti italiani il 2,09%. Hanno ottenuto il 2,58% i Rossomori, autonomisti di sinistra che hanno abbandonato il Partito sardo d’azione (la vecchia formazione fondata da Emilio Lussu) quando questo, nel 2009, si è alleato con Cappellacci.

Sempre nel campo del centrosinistra, il Partito dei sardi, gruppo indipendentista, ha incassato il 2,82%. Dall’1,5% allo 0,8, Unione popolare cristiana, Partito socialista, Italia dei valori, Verdi e Indipendentzia Repubrica de Sardinia. Nel patto elettorale pro Cappellacci varie forze di centro e di destra (tra le quali l’Udc e Fratelli d’Italia) hanno messo insieme quasi il 21% dei voti. Delle tre liste che appoggiavano Michela Murgia, gli indipendentisti di Progres hanno preso il 2,80%, Gentes il 2,27 e Comunidades l’1,81. L’altra coalizione di centrodestra, quella guidata da Mauro Pili, si è fermata al 5,68%, mentre al Fronte indipendentista è andato l’1,02%.

Questi i numeri. Il dato politico più rilevante che se ne ricava è che senza il 7,24 per cento messo insieme da Sel, Rifondazione e Pdci e senza il 2,58% dei Rossomori (che nel panorama politico sardo stanno tra le forze alla sinistra del Pd) Pigliaru non avrebbe vinto. Il voto della sinistra – pari complessivamente al 9,82% – è stato determinante per l’affermazione elettorale della coalizione. D’altra parte, il neo presidente sapeva bene, sin da prima della campagna elettorale, che senza i consensi provenienti dal bacino elettorale della sinistra la battaglia era persa in partenza. E infatti Pigliaru, durante le settimane di aspro confronto con Cappellacci, ha tenuto il timone fermo su due punti: 1) un «no» netto a qualsiasi ipotesi di larghe intese da importare da Roma a Cagliari; 2) un profilo programmatico molto attento alle questioni del lavoro, dell’istruzione e dell’ambiente, che sono quelle alle quali il quasi 10% dei sardi che hanno votato a sinistra sono più sensibili.

La Sardegna quindi va in netta controtendenza rispetto alla deriva nazionale. Se a Roma Renzi dovrà rinnovare un patto di governo di larghe intese, con un ulteriore spostamento a destra dell’asse politico nazionale, a Cagliari nascerà una giunta che, sia per composizione politica sia per ispirazione programmatica, avrà una forte connotazione di sinistra. Se test dovevano essere, queste elezioni sarde, per Renzi, i risultati vanno in una direzione politica diametralmente opposta rispetto a quella verso la quale l’ex sindaco di Firenze sembra intenzionato a procedere.

Un altro elemento sul quale riflettere è l’alto livello di astensione: il 48%. Dato che è strettamente legato al flop di Michela Murgia. Dentro quel 48% ci sono almeno tre cose: la delusione di una parte consistente dei militanti Pd (non è un caso se il partito si è fermato al 22%); una sfiducia diffusa verso le forme tradizionali della rappresentanza politica in una regione scossa da una crisi profonda alla quale partiti e istituzioni non hanno saputo dare risposte; il non voto degli elettori grillini, che alle ultime politiche avevano dato al M5S il 29% dei consensi (il primo partito in Sardegna) e che stavolta sono rimasti a casa. In queste aree – i delusi del Pd, i delusi della politica e i grillini – Murgia contava di pescare per raggiungere, secondo le dichiarazioni che sino alla vigilia del voto la scrittrice ha rilasciato, il 25%. Progetto che è fallito. Murgia ha raccolto i voti di una parte dell’area indipendentista e di una parte dei movimenti, e solo in minima parte i voti dei delusi e degli M5S. Con la conseguenza che, per effetto di una legge elettorale regionale che fissa una soglia di sbarramento altissima per ciascuna delle liste affiliate ai canditati presidenti (il 10%), Murgia non metterà in consiglio regionale neppure un candidato.