Al secondo piano del Benaki Museum, di fronte alla caffetteria, c’è una porta chiusa. Ad aprirla è lo stesso Constantine Manos (South Carolina 1934, vive tra Cape Cod, Massachusetts e la Florida), arrivato per seguire l’allestimento di A Greek portfolio. 50 years later (visitabile fino al 25 agosto) che segna il suo ritorno in questa sede dopo la personale del 1999.
Oltre ai noti scatti del portfolio greco (pubblicato nel 1972), la mostra ospita un nucleo di duecentottanta vintage inediti, stampati dallo stesso Manos mezzo secolo fa e finora mai più rivisti. Il fotografo di origine greca ha deciso di donarli all’archivio fotografico del museo che con le sue raccolte di circa quattromila tra negativi e positivi (i fondi storici principali sono quelli dei fotografi Nelly’s, Dimitrios Harissiadis e Voula Papaioannou) è il più importante della Grecia.
«Costa è un vero maestro della stampa – afferma John Demos curatore della mostra – sia del bianco e nero che del colore (una selezione di American Color è esposta parallelamente alla galleria Athens House of Photography, ndr). Queste fotografie, in particolare, rappresentano un momento della storia del paese, perché sono state scattate all’inizio degli anni Sessanta nei villaggi in cui non c’era ancora l’elettricità. Tra questi ce n’è uno nell’isola di Karpathos che Manos è stato il primo a fotografare: in seguito i più grandi reporter sono andati lì».
A Greek portfolio è il racconto di una società rurale in cui si percepisce un profondo rispetto per i valori umani. Con la Leica al collo, il fotografo Magnum (è membro dell’agenzia dal 1963) ha attraversato la Grecia, dalla Tracia al Peloponneso – Olimpo, Creta, Skyros, Monte Athos, Mykonos… – fotografando la sua gente. «Ogni immagine ha senso perché è in relazione con tutte le altre – spiega Manos – come in un poema. Un buon libro è una collezione di poesie ognuna delle quali ha vita propria, ma tutte insieme sono il corpo del lavoro e per crescere hanno bisogno di tempo e amore».

Nella sua formazione due riferimenti importanti sono stati la letteratura inglese e la musica, avendo avuto come primo incarico professionale di fotografo, a 19 anni, di seguire la Boston Symphony Orchestra a Tanglewood. In che modo queste due componenti hanno influenzato il suo sguardo?

Un anno prima di lavorare per la Boston Symphony Orchestra, quando ero studente alla University of South Carolina, non esistevano corsi di fotografia, ma già all’età di tredici anni avevo scoperto la camera oscura e più tardi Cartier-Bresson e la pellicola Ilford. Ricordo che andai nel negozio di fotografia, nella strada principale della cittadina, che aveva una grande insegna della Kodak.
Chiesi se avevano la pellicola Ilford, ma non sapevano neanche cosa fosse. Ordinai quella pellicola e comprai anche la mia prima Leica con cui scattai una serie di fotografie in una piccola isola a sud della costa del South Carolina. Daufuskie Island era abitata da african american che discendevano dagli schiavi: considero questo lavoro come il primo nucleo del portfolio greco, perché c’è la stessa semplicità della quotidianità e l’umanità della gente. Per quanto riguarda la musica, mia sorella suonava il violino, mentre io il flauto e all’epoca ero anche fidanzato con una ragazza italo-americana di Brooklyn violinista e concertista. Dopo aver lavorato per un piccolo festival di musica nel North Carolina, decisi di mandare il mio curriculum alla Boston Symphony Orchestra proponendomi come assistente fotografo al festival di Tanglewood.
Mi risposero di andare a New York per un colloquio e allegarono un assegno di 75 dollari. Era il 1952 presi il pullman e feci oltre venti ore di viaggio per incontrare il responsabile del festival che, dopo aver guardato le mie foto, mi assegnò l’incarico. Solo in seguito seppi che non ero assistente, come pensavo, ma fotografo capo. Caricai l’attrezzatura della camera oscura sul portabagagli della mia vecchia Ford e andai a Tangelwood dove fui particolarmente amato: ero il primo fotografo a non usare il flash per riprendere l’orchestra. Mi sembrava di stare in paradiso, perché amo la musica classica.
Ho fotografato Leonard Bernstein e tanti altri direttori d’orchestra. Questo collegamento con la Symphony Orchestra mi ha dato la possibilità di andare a Boston dove ho realizzato il mio primo libro, Portrait of a Symphony. Quando è stato pubblicato, nel 1961, era arrivato il momento di andare in Grecia.

La sua conoscenza della Grecia era mediata dai ricordi dei suoi genitori, Afroditi e Dimitri, emigrati negli Stati Uniti. Che tipo di confronto c’è stato tra la memoria familiare e la realtà del paese, quan

do ha iniziato a fotografarlo nel ‘61?

Sono nato a Columbia, nel South Carolina da una famiglia di greci ortodossi. I miei genitori che erano greci della Turchia. Venivano da Efsia, una piccola isola del Mar di Marmara che dovettero lasciare nel 1922, in seguito allo scambio di popolazione greca e turca. Mia madre ricordava che un giorno una nave britannica aveva buttato l’ancora davanti al villaggio e loro dovettero salire sulle scialuppe con quello che avevano al seguito. La nave si allontanò e lei non dimenticò mai i cani che abbaiavano sulla spiaggia. Quella fu l’ultima volta che videro l’isola.

[do action=”citazione”]Mi sedevo, ordinavo un caffè e cominciavo a parlare nel mio dialetto greco. C’era sempre un posto dove potevo dormire, certe volte era un retrobottega, oppure una stanza che qualcuno aveva in più a casa. La gente non mi chiedeva soldi e mi invitava anche a mangiare quello che condivideva: maccheroni, patate, feta[/do]

 

Nel 1962, parecchi anni dopo, ci sono andato con un mio amico. Ero molto nervoso per via dei turchi. Non parlai con nessuno e feci finta di essere un turista. Avevo sentito delle case sulla spiaggia lambite dall’acqua del mare e lì trovai quella dei miei nonni. Mio nonno Costantinos era pescatore, chiedeva alle figlie se volevano mangiare aragoste, poi usciva in mare con le reti e tornava con le aragoste. Quando mi recai in Grecia, coltivavo l’idea romantica di realizzare un grande libro con foto a colori e in bianco e nero di campi di papaveri e barche dei pescatori.
Un editore mi aveva concesso un finanziamento e una parte dei soldi erano miei. Misi l’ingranditore e tutta l’attrezzatura della camera oscura in un grande baule, insieme ad alcuni dischi di musica classica e spedii tutto in Grecia. Nel frattempo raggiunsi la Germania in aereo, lì comprai due Leica nella fabbrica e un Maggiolino che guidai fino ad Atene. Presi in affitto un piccolo appartamento non lontano da qui, in una piazzetta. Prima di andare in Grecia sapevo cosa avrei voluto fotografare, ma una volta arrivato lì era tutto diverso. Misi da parte l’idea di fotografare fiori e barche e solo dopo un po’ ho pensato di immortalare quei villaggi in cui non c’era l’elettricità. Villaggi poveri in cui si viveva come centinaia d’anni prima. È stato un processo molto lungo. Sono stato ovunque: nel nord, nelle isole. Paesi assai diversi tra loro, come pure la popolazione, i costumi. Avevo comprato un camper Volkswagen con cui andavo in giro.
Ricordo che una notte mi fermai in un campo, aveva cominciato a piovere e non potendo fare altro mi ero messo a dormire. Ad un certo punto qualcuno bussò al finestrino del camper. Era un ragazzo che mi disse di andare a dormire nel villaggio, avrebbero trovato un posto: certamente non potevo rimanere lì sotto la pioggia. Così è stato dappertutto. Ogni volta che andavo in un nuovo villaggio mi fermavo al caffè – ce n’è sempre uno nella piazza centrale – dove gli uomini giocavano a carte. Mi sedevo, ordinavo un caffè e cominciavo a parlare nel mio dialetto greco. C’era sempre un posto dove potevo dormire, certe volte era un retrobottega, oppure una stanza che qualcuno aveva in più a casa. La gente non mi chiedeva soldi e mi invitava anche a mangiare quello che condivideva: maccheroni, patate, feta. Gente semplice, povera, ma molto ospitale.

Nei due volumi di «American Color» (il primo è del 1995) è passato dal bianco e nero al colore. Cosa ha significato per lei quest’apertura, non solo sul piano tecnico?

Per tutta la vita ero stato un fotografo in bianco e nero, fino al grande progetto The Bostonians che ho realizzato per il bicentenario degli Stati Uniti. Le immagini dovevano essere necessariamente semplici in modo che tutti le capissero, sono foto di ricchi e poveri. In due mesi ho scattato cinquecento rullini che ho sviluppato e stampato da me in grande formato. Quando il progetto si è concluso ho avuto la tipica crisi di mezz’età. Mi sentivo annoiato e non riuscivo più a scattare una foto in bianco e nero.
Un giorno finalmente ho ripreso la mia Leica in cui avevo messo un rullino Kodachrome e sono andato al Boston Common. Allora ho capito che mi sarei dovuto confrontare con la mia crisi oppure ne sarei stato annientato. Prima di andare alla ricerca di quello che si vuole trovare è necessario capire quello che si sta cercando. Quelle mie foto sono diventate sempre più strane, ma come dice Rimbaud in tutte le cose belle ci sono le stranezze. Sono immagini che pongono delle domande senza dare risposte. C’è poca umanità, esattamente l’opposto di A Greek portfolio.