L’Islanda dice “no” alla Ue
Gran rifiuto Reykjavik ritira la candidatura di adesione, presentata nel 2009. L'isola, che ha attraversato una grave crisi, spera di cavarsela da sola (ma resta nell'Associazione di libero scambio, nello Spazio economico europeo e in Schengen). Crescita del nazionalismo e guerra "dello sgombro" l'allontanano da Bruxelles
Gran rifiuto Reykjavik ritira la candidatura di adesione, presentata nel 2009. L'isola, che ha attraversato una grave crisi, spera di cavarsela da sola (ma resta nell'Associazione di libero scambio, nello Spazio economico europeo e in Schengen). Crescita del nazionalismo e guerra "dello sgombro" l'allontanano da Bruxelles
La crisi greca, la prospettiva di un referendum in Gran Bretagna sulla permanenza nella Ue e la “guerra dello sgombro” hanno avuto ragione dell’ipotesi di un’adesione dell’Islanda all’Unione europea (e all’euro). Il governo di centro-destra, guidato da Sigmundur David Gunnlaugsson (Partito del Progresso), ha ritirato la domanda di candidatura, che era stata presentata nel 2009, dall’allora governo di centro-sinistra. In piena crisi, sotto i colpi dello scossone del fallimento della banca Icesave (che aveva fatto perdere molti soldi anche a cittadini britannici e olandesi), dopo la nazionalizzazione forzata delle tre principali banche del paese e con la pressione del piano di rigore imposto dall’Fmi, sei anni fa l’Islanda vedeva nella Ue un’ancora di salvezza: la corona è stata svalutata del 50% e l’euro poteva rappresentare un porto sicuro (nel 2008, l’Islanda aveva persino valutato l’ipotesi di adottare il dollaro canadese, visto che era la moneta che aveva resistito meglio alla crisi). L’Islanda ha un debito estero di 3,9 miliardi di euro (soprattutto verso Olanda e Gran Bretagna) e, secondo l’ultimo accordo, avrà tempo dal 2016 al 2046 per restituirlo, a un tasso un po’ superiore al 3%.
I dubbi che stanno sommergendo l’idea stessa di Europa hanno fatto cambiare idea al piccolo paese insulare (320mila abitanti), che pensa di “potersela cavare meglio fuori dalla Ue”, come ha affermato il ministro degli esteri, Gunnar Bragi. Del resto, anche se c’è il ritiro della candidatura, l’Islanda ha già adottato al 70% la legislazione europea, resta nell’Associazione di libero scambio e nello Spazio economico europeo, oltreché in Schengen (a cui ha aderito nel ’96), partecipa al programma Erasmus (ed è nella Nato).
A far naufragare la trattativa, che era già molto avanzata e avrebbe portato all’adesione a breve, è stata la molto prosaica “guerra dello sgombro”. L’Islanda esporta pesce nel mercato Ue senza pagare tariffe doganali, come se fosse un paese membro. Ma la Commissione impone delle “quote” a tutti i pescatori, per far fronte alla minaccia di penuria dovuta a un eccessivo sfruttamento dei mari. Reykjavik non ne vuole sapere: nel 2010, unilateralmente, ha deciso di aumentare la propria quota di pesca, sfidando Bruxelles. Il “diktat” sullo sgombro fa da sfondo a un ritorno di nazionalismo, con la speranza di una ripresa economica che si profila all’orizzonte (previsioni di crescita del 4,2% quest’anno), anche se il pil del paese resta ancora inferiore oggi a quello del 2008, prima dello scoppio della crisi.
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