Che lo Stato Islamico sia strumento di frammentazione è palese: Siria e Iraq, scossi chi da una guerra civile, chi da un’occupazione di 8 anni che ha sfaldato le istituzioni, sono state prede facili. L’effetto è dirompente: un’innaturale divisione settaria, nuova nella storia di Damasco e Baghdad.

Eppure spesso i media giocano a ingigantire quelle che definiscono ataviche frizioni tra le componenti etniche e religiose dei due paesi. Più corretto dire che tali “frizioni” sono state sfruttate a dovere dagli attori interessati alla disgregazione di realtà nemiche.

Partiamo dall’Iraq. Ufficiosamente il paese è già diviso, i conflitti interni si moltiplicano: sunniti contro sciiti, sciiti contro kurdi, sciiti contro sciiti. Tre città fanno da rispettivo modello allo scontro: Ramadi, Kirkuk, Baghdad.

Il capoluogo della provincia sunnita di Anbar, liberato dall’esercito iracheno, è l’esempio delle paure sunnite. I racconti degli sfollati, raccolti da Middle East Eye, sono pieni degli abusi da parte delle milizie sciite: interrogatori lunghi settimane, detenzioni, separazione degli uomini dal resto della famiglia, strumenti usati per individuare collaboratori dell’Isis, nella distorta idea che se si è sunniti in qualche modo si ha avuto a che fare col nemico.

Salendo verso nord, verso il ricco distretto di Kirkuk, si può assistere allo scontro fisico tra milizie sciite e peshmerga kurdi. In ballo ci sono i giacimenti petroliferi più grandi del paese. Dalla presa di Mosul, giugno 2014, Kirkuk è in mano kurda, conquista che ha fatto infuriare Baghdad. A due anni di distanza, ad intervenire è il governatore kurdo della città contesa che ne difende la natura multietnica e multireligiosa.

«La Gerusalemme kurda», la chiama Najmaldin Karim, palesando l’ambizione di farne città autonoma all’interno dello Stato. Quale? Un Kurdistan iracheno indipendente, perché – dice – meno corrotto e incompetente di Baghdad.

Anche nella capitale le frizioni si moltiplicano, stavolta all’interno della compagine sciita. A spaccare il fronte è il religioso Moqtada al-Sadr, che – vestiti i panni del moderato riformista, anti-corruzione e anti-settarismi – da settimane porta in piazza migliaia di suoi sostenitori che premono per la formazione di un governo di tecnici.

Sebbene debole dal punto di vista parlamentare (il suo partito, al-Ahrar, conta 34 seggi su 328), al-Sadr sta aumentando il consenso anche tra i deputati di altre formazioni, tanto da proporre ieri una lista di ministri per un nuovo esecutivo al premier al-Abadi che ha reagito promettendo di sceglierne entro sabato nove.

E la Siria? Come il vicino Iraq è la dimostrazione dell’inefficacia della partizione contro autorità parallele. Il fallimento delle istituzioni, fisicamente scomparse da due terzi del territorio a causa della guerra civile, ha permesso un’avanzata repentina dello Stato Islamico nel cuore politico e culturale della regione. Tanto centrale da avere un decisivo potere attrattivo per adepti stranieri al progetto del “califfo” al-Baghdadi: foreign fighters da tutto il mondo occidentale e arabo hanno raggiunto la Siria, si sono addestrati lì e imbevuti di una facile propaganda sostenuta da un potere economico senza precedenti.

Ieri foto pubblicate su account legati all’Isis mostravano miliziani distribuire cioccolatini in città non identificate per celebrare il massacro di Bruxelles. Nelle stesse ore Damasco arrivava alle porte di Palmira, sito Unesco semi distrutto dalla brutalità islamista: la comunità è circondata dalle truppe governative, pronte all’assalto finale. «I soldati sono a 2 km dalla parte sud della città e a 5 da quella ovest», riporta l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani.

Una vittoria dal forte significato militare (si apre la strada per Deir Ezzor e l’ovest) e politico (il presidente Assad ne uscirebbe rafforzato) ma che non pone fine alla minaccia della partizione: nonostante i raid di Usa e Russia e l’avanzata delle Ypg kurde abbiano rosicchiato territori al sedicente califfato, le anime del paese non si sono cementate intorno al pericolo comune.

Governo e opposizioni mantengono posizioni distanti e, sebbene saranno costretti al compromesso dai rispettivi sponsor internazionali, è difficile immaginare una reale pacificazione. Una delle ragioni è proprio l’Isis, visto dai rispettivi fronti con occhi diversi: nemico tra i nemici da Damasco, elemento di disturbo per il governo dalle opposizioni che negli ultimi due anni non hanno quasi mai reagito agli islamisti se non quando attaccate.

Forse perché i finanziatori delle opposizioni sono gli stessi che hanno fatto proliferare l’Isis, forse perché speravano che quel cancro intaccasse definitivamente la resistenza di Assad. Il risultato è l’assenza di fiducia tra le parti e l’erosione del consenso dei civili.