Da patrimonio Unesco a campo minato: così lo Stato Islamico trasforma il volto di Palmira, antica città romana al centro della Siria, occupata il 21 maggio. A riferirlo è il capo del dipartimento per le Antichità del governo di Damasco, Mamoun Abdulkarim: «Abbiamo ricevuto informazioni dai residenti: [i miliziani] hanno minato il sito del tempio. Faccio appello a tribù e religiosi, impedite che accada quanto accaduto in Iraq».

Resta da capire la ragione dietro la mossa del califfato. Dopo la presa di Palmira e Tadmur, la città nuova sorta ai margini del sito, il mondo ha gridato al pericolo: si temeva che a Palmira toccasse la stessa sorte dei siti iracheni di Nimrud e Hatra. Ma dopo un mese l’Isis non ha violato l’antica città. Perché, ora, la mina?

È possibile che si tratti di una tattica militare: frenare la controffensiva del governo, umiliato dalla perdita della città, la prima sotto il controllo diretto di Damasco ad essere occupata dall’Isis. Da un mese l’aviazione bombarda le postazioni islamiste nella città nuova, raid intensificatisi negli ultimi 3 giorni. Rinforzi sono arrivati nel fine settimana, dispiegati a ovest di Palmira, e l’esercito ha ripreso sia la città di al-Biyarat, a soli 10 km dal sito, che la via di transito del gas del giacimento di Jazal che rifornisce la capitale.

Una mossa che fa pensare ad una controffensiva anti-Isis perché Palmira, al di là del suo valore storico, è strategica dal punto di vista militare: al centro del paese, rappresentebbe la base per un’eventuale avanzata islamista verso ovest, saldamente in mano a Damasco.

Oppure le mine servono ad altro: alla distruzione del più celebre sito archeologico siriano. Spazzare via Palmira per cancellare la storia del mondo arabo, le sue radici millenarie e multietniche, il suo essere crocevia di popoli diversi e per questo culla della cultura mediterranea. Se, infatti, il sogno panarabista aveva come obiettivo l’unità del mondo arabo, fondato su una cultura, una lingua e anche una religione uniche, l’obiettivo dello Stato Islamico è ben diverso: un progetto, sì, transnazionale ma che alla base non abbia l’identità araba – con la sua estrema ricchezza religiosa e etnica, figlia dei tanti popoli che hanno vissuto la regione – ma quella islamica.

In tal senso Palmira, come Nimrud e Hatra, è minaccia al progetto del califfo perché simbolo di un mondo arabo che nega, della Jahiliyah (l’era dell’ignoranza) che si contrappone all’era dell’Islam, nella personale e estremista intepretazione che per propaganda e agenda politica l’Isis porta avanti.

Eppure, il fatto che finora Palmira sia stata risparmiata dai picconi del califfo fa pensare che forse non sia così attraente: violarla non avrebbe attirato le simpatie di residenti e tribù locali, obiettivo invece parzialmente raggiunto con la distruzione della nota prigione di Palmira, teatro nel 1980 dell’uccisione di centinaia di prigionieri islamisti dopo un attentato alla vita di Hafez Assad.

O, forse, Palmira non è letteralmente vendibile: nei mesi scorsi video pubblicati online mostravano miliziani dell’Isis distruggere reperti nei musei e nei siti archeologici iracheni. Mera propaganda per attrarre nuovi adepti: in realtà buona parte degli oggetti antichi è diventata merce per il mercato nero europeo, un’entrata da milioni di dollari, quasi pari ai proventi del petrolio venduto sottobanco dal califfato.

Prima che Palmira venisse occupata, subodorando il pericolo, le autorità di Damasco avevano portato in salvo tutti i reperti che potevano essere trasportati. Da vendere resta poco e Palmira pareva salva.