Esplosioni e bulldozer: così è scomparso il più antico monastero cristiano in Iraq. Di Mar Elia non resta che un cumulo di macerie dopo il passaggio della folle e manichea ideologia dello Stato Islamico. Alle porte di Mosul, la fortezza di 2.500 metri quadrati ha resistito al tempo, ai massacri, alle invasioni, al vandalismo dei marines Usa che rovinarono con i murales le antiche mura mentre la 101° divisione usava la struttura come base dopo il 2003.

Ha resistito per 1.400 anni per scomparire nell’era di un sedicente “califfato” che dell’Islam non ha nulla. Era stato costruito nel VI secolo d.C. dal monaco e santo Elia ed è stato luogo di preghiera per secoli. Monaci di ogni epoca si sono susseguiti nella cappella, nel santuario, nelle nicchie. In greco era ancora presente la parola “Cristo”, scolpita all’ingresso.

A testimoniarne la distruzione sono immagini satellitari pubblicate dall’Ap e realizzate dalla Digital Globe che è riuscita a catturare le macerie: «Letteralmente polverizzato. Bulldozer, equipaggiamento pesante, forse esplosivo hanno trasformato le mura di pietra in polvere grigia», dice l’analista Wood della Allsource Analysis che, studiate le immagini, rimanda ad un anno e mezzo fa l’epoca della demolizione. Agosto, settembre 2014. Nessuno se ne era accordo nonostante l’ampio utilizzo di droni di sorveglianza e satelliti per combattere l’Isis a distanza.

«La nostra storia cristiana a Mosul viene barbaramente cancellata – lamentava ieri sul The Guardian padre Habib, rifugiato a Erbil – Vediamo il tentativo di espellerci dall’Iraq». Una convinzione, quella di Habib, condivisa dalle migliaia di cristiani riparati nel Kurdistan iracheno.

La scomparsa di Mar Elia – come di altri 100 siti storici e religiosi, da Ninawa a Palmira in Siria – è una perdita immensa per l’Iraq, per la sua storia millenaria, per le tante culture e religioni che lo hanno attraversato e lo attraversano. È così che lo Stato Islamico punisce, così si ciba di vitale propaganda, calpestando la ricchezza dei territori che viola. Continua a farlo in un periodo, secondo i media internazionali, di debolezza: l’Isis ha perso Ramadi, Sinjar, Baiji e ora si prepara alla controffensiva governativa su Mosul. Ma l’Isis non è indebolito, non arretra perché riesce ancora a dividere profondamente l’Iraq. O meglio, ad allargare divisioni preesistenti, riemerse durante gli anni dell’invasione Usa.

L’Isis oggi sfrutta a proprio favore la principale minaccia al futuro dell’Iraq: i settarismi interni, già concreti e visibili fisicamente negli scontri armati tra milizie sciite e peshmerga e nelle rappresaglie di kurdi e sciiti contro le comunità sunnite.

Anche stavolta a raccontare gli abusi sono immagini satellitari. Sono state raccolte da Amnesty International e rese pubbliche ieri: migliaia di case arabe in almeno 13 villaggi nelle province di Ninawa, Kirkuk e Diyala sono state distrutte dai peshmerga di Erbil per impedire il ritorno degli sfollati nelle comunità di appartenenza. L’accusa dell’associazione al governo regionale del Kurdistan è di aver commesso crimini di guerra: «Le forze del Krg e le milizie kurde nel nord dell’Iraq hanno distrutto con i bulldozer, fatto saltare in aria e bruciato migliaia di case come rappresaglia per quello che percepiscono come sostegno all’Isis».

Una convinzione che è uno stigma per la comunità sunnita, oggetto della vendetta di tutti: degli yazidi massacrati dall’Isis a Sinjar e che ora incendiano le case sunnite nei villaggi vicini; delle milizie sciite a Tikrit come a Muqdadiya, dopo gli attentati della scorsa settimana; dei kurdi iracheni che impediscono agli sfollati di tornare alle proprie comunità nel distretto di Kirkuk, preda ambita sia di Erbil che di Baghdad. Lo avevamo raccontato su queste pagine a novembre, dai villaggi intorno Kirkuk dove migliaia di sunniti restano bloccati dai peshmerga che vogliono le loro terre.

Erbil si difende e dice che le distruzioni documentate da Amnesty sono il risultato di scontri con gli islamisti. Ma l’Isis non c’è più e agli sfollati viene ancora impedito di tornare a casa perché queste vendette camuffano politiche di di appropriazione.

E a poco servono gli sforzi del premier al-Abadi che tenta di ricucire mandando i sunniti a liberare Ramadi o proponendo di integrare nelle unità di mobilitazione popolare, le sciite Hashed al-Shaabi, i volontari sunniti. Un tentativo morto sul nascere nell’Iraq del 2016, quello immaginato 12 anni fa dagli Usa: un paese diviso.