L’esercito di Damasco coadiuvato dall’aviazione russa e gli Stati uniti hanno inferto stavolta due gravi perdite al sedicente stato islamico. I militari di Assad sembrano avere ormai in mano l’antica città di Palmira. E forse per controbattere in concorrenza il successo governativo ottenuto con l’ausilio dell’aviazione russa, solo ieri Washington ha annunciato l’uccisione di quello che è considerato il numero due dell’Isis. Morte che sarebbe avvenuta durante un’incursione aerea statunitense lo scorso febbraio.

Per quanto riguarda le notizie giunte dal campo di battaglia, stando a quanto appreso nel tardo pomeriggio di ieri, le forze dell’esercito di Damasco avrebbero definitivamente liberato l’antica città di Palmira dal controllo dell’Isis al termine di una giornata di scontri sanguinosi, conclusasi con la conquista del castello della città.

Verso la serata, la conferma è arrivata dall’agenzia di stampa ufficiale siriana Sana. «Unità dell’esercito, in collaborazione con la milizia di difesa popolare, hanno preso il controllo del castello di Palmira dopo aver inflitto pesanti perdite ai terroristi dell’Isis», si leggeva sul sito web dell’agenzia. La Sana confermava inoltre il proseguimento dei combattimenti nell’area: «Unità dell’esercito stanno perlustrando l’area dopo aver distrutto gli ultimi covi dell’organizzazione terroristica e disinnescato ordigni lasciati dai terroristi». Tutto questo pochi minuti prima del lancio dell’agenzia Tass, che citando una fonte «bene informata» scriveva che «le truppe sono a 500 metri dall’aeroporto».

Nel corso delle operazioni sarebbe morto anche un ufficiale delle forze di operazioni speciale russe, nella zona del centro abitato di Tadmor, nei pressi di Palmira. Secondo il portavoce della base russa a Latakia, in Siria «l’ufficiale aveva compiuto la sua missione per una settimana, individuando i più importanti obiettivi dei jihadisti e fornendo coordinate precise per i raid».

Stato islamico in fuga dunque, questo è lo scenario che viene accreditato dalle notizie di ieri, e perdipiù menomato anche a livello di leadership.

Ieri il capo del Pentagono Ash Carter, ha annunciato l’uccisione di Abdul Rahman Mustafa al-Qaduli, nome di battaglia Abu Alaa al-Afri, il numero due dell’organizzazione guidata da al-Baghdadi. Su al-Afri, noto anche con lo pseudonimo di Hajji Iman, pendeva una taglia di sette milioni di dollari, la più alta offerta dalle autorità statunitensi per un leader dell’Isis dopo il capo, Abu Bakr al-Baghdadi (il suo «valore» è di 10 milioni di dollari»).

Secondo le informazioni in possesso – e parzialmente rivelate – del Pentagono, al-Afri era da considerarsi come il «ministro delle finanze» del Califfato.

Le notizie riguardanti la sua biografia dicono solamente che era un ex insegnante di fisica, ma non si sa se sia nato nel 1957 o nel 1959. Il luogo di nascita è Tal Afar, alla periferia di Mosul, la città dell’Iraq settentrionale che dall’estate del 2014 è nelle mani dell’organizzazione jihadista (e verso la quale è in corso un’offensiva delle forze di Erbil e di Baghdad).

Secondo le autorità statunitensi si era unito ad al-Qaeda nel 2004 (all’epoca sotto l’egida di Abu Musab al-Zarqawi), diventando prima vice comandante e poi leader dell’organizzazione a Mosul. Catturato dalle autorità irachene era stato rilasciato nel 2012. Nello stesso anno si era unito all’Is e aveva trascorso diversi mesi in Siria.

Sul successo di Damasco è intervenuto anche il ministro di beni culturali Dario Franceschini – ripreso subito da Gentiloni – per rilanciare l’idea di caschi blu della cultura in un sito di tale rilevanza storica e archeologica. «I nostri caschi blu della cultura non sono solo un’idea ma una realtà operativa, ha detto il ministro, una Task Force di carabinieri e civili, pronta a intervenire non appena ci verrà chiesto dalla comunità internazionale. Siamo il primo e unico paese ad avere firmato un protocollo con l’Unesco su questo».