Lo scaricabarile tra Washington e Baghdad arriva a Parigi. Dopo la caduta di Ramadi, il 17 maggio, il segretario alla Difesa Carter ne ha attribuito la responsabilità alle truppe irachene. Scappate senza combattere. Il premier al-Abadi ha risposto martedì: «Questo è un fallimento del mondo. Si parla tanto di sostegno all’Iraq, ma sul terreno si fa poco», ha detto dopo il meeting di ministri degli Esteri dei paesi membri della coalizione anti-Isis.
Non è la prima volta che Baghdad striglia l’alleato, criticando una strategia che si limita a raid aerei, addestramento dei soldati e invio di armi che sostituiscano quelle confiscate dallo Stato Islamico. Dall’incontro di Parigi è uscito poco, se non dichiarazioni di facciata: le armi ai sunniti (che chiedono maggior coinvolgimento) arriveranno ma «passando per Baghdad»; il momento per una maggiore risoluzione nel combattere il califfo «è giunto, c’è ancora tanto da fare», come ha ripetuto il segretario di Stato Kerry dagli Usa dove è ricoverato per una gamba rotta.
A Parigi, al suo posto, c’era il vice Blinken le cui parole hanno fatto infuriare Baghdad: «La battaglia contro l’Isis deve essere vinta dal popolo iracheno. Abbiamo assistito a grandi perdite all’interno del gruppo dall’inizio della campagna, oltre 10mila miliziani [uccisi]. Avevamo detto che sarebbero stati necessari tre anni, sono passati solo nove mesi».
Dichiarazioni campate in aria: se è vero che 10mila miliziani sono stati uccisi, molti di più ne sono arrivati. Secondo un rapporto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di fine maggio, negli ultimi nove mesi il numero di adesioni all’Isis è aumentato del 70%, 25-30mila combattenti dispiegati tra Siria e Iraq.
Basta guardare alla situazione reale: sul terreno, lontano dai salotti inefficaci della diplomazia mondiale, il califfato controlla un terzo dell’Iraq e quasi metà della Siria, un’area grande quanto l’Italia. E non cede il passo: fulcro degli scontri in territorio iracheno resta la devastata provincia di Anbar. Dopo la presa del capoluogo Ramadi, ieri i jihadisti hanno chiuso la diga che rifornisce la popolazione civile. Una minaccia terribile alla già precaria situazione umanitaria nella zona.
Le conseguenze sono immediate: il livello dell’Eufrate si è abbassato e le comunità di Khalidiyah e Habbaniyah a est di Ramadi (tra le poche ancora controllate da Baghdad) non hanno più acqua. «Tagliare l’acqua provocherà un’enorme crisi umanitaria», ha commentato lo sheikh Rafa al-Fahsawi, leader della tribù sunnita Albu Fahad, schierata contro il califfo. «L’obiettivo è ridurre il livello del fiume per ragioni belliche: quando l’acqua non c’è, possono infiltrarsi da Ramadi a Khalidiyah e da lì verso altre aree», ha aggiunto Aoun Diyab, ex dirigente del Dipartimento per le risorse idriche.
Siria, iraniani e iracheni a difesa di Damasco
Epicentro dello scontro dall’altra parte del confine resta il nord della Siria, da est a ovest. Ieri lungo la frontiera con l’Iraq, sono ripresi gli scontri tra Damasco e Isis, a sud di Hasakah, città del Kurdistan siriano presa di mira pochi giorni fa dagli islamisti. Un’area strategica, il triangolo che connette i confini turco e iracheno al territorio siriano.
Nel mirino islamista c’è anche Aleppo, preda desiderata di al-Baghdadi che sogna un califfato «da Aleppo a Diyala», dall’estremo ovest siriano al profondo nord iracheno. Ieri nuove vittorie sono state segnate dall’Isis che ha assunto il controllo di altro territorio, strappato a opposizioni rivali: un video su YouTube mostra miliziani islamisti camminare per le vie di Umm al-Qura, fuori Aleppo.
L’esercito siriano ha inviato rinforzi dalle zone rurali di Hama e Idlib, il cui capoluogo è stato perso a favore dei qaedisti di al-Nusra lo scorso fine settimana. Una spaccatura del paese che facilita i piani del califfo: Damasco è isolata dalla coalizione che compie raid in solitaria. Gli Usa continuano nella loro guerra cieca e personale ad Assad, accusandolo di rappresentare un aiuto per l’Isis perché combatte le opposizioni moderate nella realtà dei fatti spazzate via proprio dal califfato.
Al presidente resta il concreto sostegno di Hezbollah e Iran, forze che hanno permesso finora di mantenere il controllo sulla capitale e sull’ovest. Ieri i combattenti libanesi hanno ripreso tre colline a est di Arsal, in Libano, usata da al-Nusra per lanciare attacchi al Paese dei Cedri. Nella capitale siriana, invece, secondo quanto riportato da fonti anonime della sicurezza, sarebbero stati dispiegati in poche settimane 7mila combattenti iracheni e iraniani: «L’obiettivo è arrivare a 10mila uomini per sostenere il governo prima di tutto a Damasco e poi per riprendere Jisr al-Shughur [a Idlib], centrale per il controllo della costa mediterranea e della regione centrale di Hama».