Stragi, scontri, assedi che affamano i civili: lo Stato Islamico non allenta la morsa sull’Iraq, escluso dagli sviluppi militari e politici della vicina Siria. Nonostante la perdita di aree strategiche (Ramadi e Sinjar), l’Isis è alle porte di Baghdad.

Sabato il “califfato” ha massacrato la capitale, una delle peggiori carneficine degli ultimi due anni: 92 morti, tra attentati suicidi a Sadr City e attacchi ad Abu Ghraib. È di 73 il numero di morti in un mercato nel quartiere sciita: prima una moto è saltata in aria, poi un kamikaze si è fatto esplodere all’arrivo dei soccorsi. Intanto ordigni esplodevano in periferia uccidendo 7 persone e 12 soldati perdevano la vita in scontri con gli islamisti ad Abu Ghraib, ovest della capitale. Un’area strategica, lungo la direttrice Baghdad-Fallujah, ora parzialmente in mano a Daesh: secondo la sicurezza irachena, gli islamisti hanno assunto il controllo di Dhari Gharbi, nel distretto di Abu Ghraib.

Le vittorie del “califfo” al-Baghdadi mantengono l’Iraq sull’orlo del baratro. A pagarne il prezzo è la popolazione, in particolare nella provincia a maggioranza sunnita di Anbar: dopo la liberazione del capoluogo Ramadi, forze governative e paramilitari sciiti si sono spinti verso Fallujah ma non hanno mai lanciato la controffensiva sulla città.

Decine di migliaia di civili sono alla fame, come a Madaya, Fu’a, Kefraya, Deir Ezzor in Siria, ma con meno attenzione internazionale: gli islamisti impediscono l’accesso regolare a cibo e medicine, confiscano le scarse risorse e le rivendono a prezzi esorbitanti.

Riso e zucchero costano 10 volte più del normale, il carburante per scaldarsi 30 volte. Sarebbero già 10 i morti per denutrizione, 6 anziani e 4 neonati: «Non importa se l’Isis mi uccide, devo trovare cibo per la mia famiglia», racconta Hameed, residente di Fallujah, a Middle East Eye. Qualcuno prova a reagire: nei giorni scorsi sono scoppiati scontri tra tribù sunnite locali e Isis, conclusisi con l’arresto di oltre 100 persone. Non va a buon fine neppure il negoziato tentato da Croce Rossa e Baghdad con l’Isis per permettere l’ingresso di aiuti.

Intanto epicentro del conflitto resta Mosul: mentre aumentano le truppe turche nella base peshmerga di Bashiqa (erano 150, ora sarebbero 2mila), Baghdad emette un piano di intervento nel caso di collasso della diga, la cui messa in sicurezza è stata affidata alla compagna italiana Trevi, per la protezione della quale Roma ha inviato truppe nel paese. In pericolo ci sono un milione e mezzo di persone, da Mosul a Baghdad.

Frattura sciiti-sunniti
La misura della frammentazione la danno gli eventi della scorsa settimana. Venerdì il religioso sciita Moqtada al-Sadr ha portato in Piazza Tahrir a Baghdad un milione di suoi sostenitori, un’enorme manifestazione contro la corruzione del governo e l’incapacità del premier al-Abadi a far approvare il pacchetto di riforme da mesi sul tavolo. I manifestanti lanciano il loro ultimatum: o lui agisce o loro marceranno sulla Zona Verde.

Ma tra le richieste di al-Sadr, a capo delle Brigate della Pace (formazione nata dall’Esercito del Mahdi, potente milizia impegnata 10 anni fa nella resistenza armata all’occupazione Usa), c’è anche l’incorporazione delle compagini paramilitari sciite nell’esercito regolare. Un’eventualità che, se da una parte le renderebbe più dipendenti dall’esecutivo, dall’altra ne legittimerebbe l’autorità politica.

Si muove anche il fronte sunnita: l’Hcc, Alto Comitato di Coordinamento, blocco di 13 partiti sunniti, ha proposto la creazione di una regione autonoma sunnita a ovest sul modello del Kurdistan iracheno. «Garantirà stabilità, unità e la tenuta dell’attuale sistema politico – dice il presidente dell’Hcc, al-Nujaifi – Rimedierà agli errori e distribuirà l’autorità».

Una proposta (più volte paventata dalle amministrazioni Usa, da Bush ad Obama) che si fonda sul tentativo di seppellire le discriminazioni politiche ed economiche subite dai sunniti e che, nei piani dei partiti coinvolti, sanerebbe la spaccatura tra base e governo. Dall’altra parte, però, aprirebbe ad una divisione settaria del paese.

Siria, la tregua resiste
Regge, nonostante alcune violazioni, la cessazione delle ostilità cominciata sabato. Non mancano accuse incrociate tra governo e opposizioni, ma il numero di raid e scontri si è considerevolmente ridotto. Tanto da spingere l’Onu a continuare con la consegna di aiuti nelle zone assediate e a confermare l’apertura del negoziato il 7 marzo.

Chi la tregua non la rispetta è la Turchia che – mentre annuncia di aver bombardato ieri l’Isis – prosegue indisturbata nei raid contro i kurdi a nord: secondo l’agenzia russa Tass 10 civili sono stati uccisi dall’artiglieria di Ankara e un centinaio di miliziani avrebbe attraversato la frontiera diretti a Raqqa.