Se il jet dell’aviazione giordana caduto mercoledì in Siria fosse stato davvero abbattuto dai miliziani islamisti, il conflitto potrebbe cambiare volto: il califfato di al-Baghdadi segnerebbe un nuovo punto a favore del progetto jihadista, mostrando al mondo intero – e soprattutto alla coalizione – una potenza militare maggiore di quella immaginata. Che l’Isis goda di un equipaggiamento di alto livello, grazie alle razzie compiute nelle basi dell’esercito iracheno, si sapeva già. Ma che possa arrivare ad abbattere un aereo da guerra della coalizione è un fatto nuovo.

Per ora la Giordania nega: il pilota è sì stato catturato dallo Stato Islamico, ma a seguito di un incidente. «Le prime indicazioni mostrano che la caduta dell’aero giordano nell’area della città siriana di Raqqa non è stata causata dal fuoco islamista», commenta un funzionario militare di Amman.

Simile la dichiarazione della Casa Bianca, secondo la quale «le prove suggeriscono che l’Isis non ha abbattuto il jet». Washington promette misure immediate per liberare il pilota che manca all’appello: il tenente 26enne Muath al-Kassasbeh appare in una serie di foto pubblicate dal gruppo islamista su internet, insieme alla sua carta d’identità, a riprova dell’avvenuta cattura. Per l’Isis, l’occasione giusta per “punire” uno dei paesi arabi i cui legami politici e diplomati con gli Stati uniti sono più forti.

Tra questi anche la Turchia che però, a differenza di Amman, opera da outsider: Ankara non ha mai nascosto le ragioni dietro l’eventuale partecipazione alla guerra al califfato. La preda è Assad e il rafforzamento del ruolo turco della regione. Nel timore di un consolidamento dell’influenza iraniana e sciita sull’Iraq, Erdogan sta tessendo di nuovo le relazioni con Baghdad dopo la rottura negli anni di al-Maliki (furioso per i rapporti economici tra Ankara e Kurdistan iracheno). Ieri Davutoglu ha incontrato la controparte irachena, il primo ministro al-Abadi, con il quale ha discusso del futuro ampliamento dell’assistenza militare al paese per un terzo occupato dall’Isis.

Al-Abadi ha detto che la Turchia potrebbe inviare armi, mettere a disposizione la propria intelligence e lanciare un programma di addestramento delle truppe irachene, simile a quello implementato ad Irbil con i peshmerga. Durante la conferenza stampa, Davutoglu ne ha approfittato per ricordare alla coalizione il proprio obiettivo, la testa di Assad. Contro i tentativi turchi si muove la Russia: giovedì il ministro degli Esteri è tornato a prospettare la ripresa del dialogo tra opposizioni siriane e Damasco. Dopo il fallimento di Ginevra, il tavolo potrebbe aprirsi a Mosca dopo il 20 gennaio e vedrebbe la partecipazione dell’inviato Onu Staffan de Mistura, impegnato da mesi nell’implementazione di cessate il fuoco locali ad Aleppo e in alcuni quartieri assediati di Damasco.

«Ci aspettiamo che questo gruppo includa le opposizioni interne e esterne alla Siria – ha detto il portavoce del Ministero russo, Alexander Lukashevich – Sarà un gruppo compatto. Inviteremo rappresentanti del governo e le parti proveranno ad esprimere in un’atmosfera informale la loro visione e i modi di regolare il conflitto».

La Russia non abbandona il presidente Assad. Dietro, la consapevolezza che senza Damasco la lotta all’Isis sarebbe difficile da vincere: le opposizioni moderate sostenute da Ue e Usa non sono più in grado di controllare la situazione sul campo, relegate in un angolo da quelle islamiste sempre più vicine all’Isis, e sul piano politico mancano del consenso della popolazione perché incapaci di fornire un’alternativa efficiente e concreta al governo di Assad.

Oggi, la sola alternativa a Damasco pare essere il nuovo sistema semi-statale di al-Baghdadi che nei territori occupati ha creato una struttura amministrativa che mai l’Esercito Libero Siriano o la Coalizione Nazionale hanno saputo offrire. Lo stesso accade al di là del confine, in Iraq, dove città come Mosul sono gestite oggi dal califfato. I risultati sono ben diversi da quelli di Raqqa: la crisi economica e la mancanza di servizi sta trascinando la popolazione civile rimasta in una situazione di vera emergenza, anche per le difficoltà dello Stato Islamico a mantenere stabile il governatorato. Dopo soli 25 giorni, il nuovo governatore Isis di Mosul, Abu Taluut, è morto in un raid della coalizione, come il suo predecessore Radwan al-Hamdouni, ucciso all’inizio di dicembre.

Ai raid e ai 4mila consiglieri militari, gli Usa hanno fatto sapere di voler aggiungere i famigerati contractor: in Iraq torneranno le compagnie private di sicurezza, le stesse che ancora oggi sono nell’occhio del ciclone per i crimini compiuti negli anni dell’occupazione del paese. Un modo per Obama per fingere l’inesistenza di un coinvolgimento diretto in Medio Oriente.