Una storia d’amore, due adolescenti che lo slancio dell’età non possono viverlo liberamente. Daphne è rabbiosa, Josh non capisce perché la fidanzata vuole lasciarlo. Gli occhi si cercano, qualche parola, le sigarette, lei che si offre di parlare con la sua ragazza anche se non la conosce. La dichiarazione di un’amicizia che basta un po’ di «maledetta primavera» a far capire che è diventata qualcos’altro: voglia di toccarsi, baciarsi, fare l’amore, correre via fino a non avere più fiato. Ma non possono, come Giulietta e Romeo i due ragazzi devono rimanere separati. Così dice il regolamento del carcere minorile dove sono richiusi.

Fiore il nuovo film di Claudio Giovannesi – alla Quinzaine des Realisateurs e in sala il 25 maggio – è la sorpresa felice di metà festival insieme alla conferma del talento di un giovane regista tra i migliori delle nuove generazioni. E non era semplice con una storia – di cui è autore insieme a Filippo Gravino e Antonella Lattanzi – che porta con sè un rischio altissimo di banalizzazioni: gli adolescenti, la prigione, la perenne tensione tra i ragazzi e gli «educatori»: uno spazio delimitato da regole rigide e continui imprevisti di ribellione. Ma Giovannesi per raccontare gli adolescenti ha un tocco speciale e come raramente accade ne sa restituire con fluidità gesti, parole, orizzonti – lo avevamo visto nel precedente Alí ha gli occhi azzurri. Non solo. L’allenamento nel documentario lo ha reso capace di mantenere in equilibrio luoghi (qui studiati con cura) traiettorie emozionali, corpi e scrittura, il romanzesco e la realtà.

Eccoci così nel carcere minorile insieme a Daphne, che è lei trascinare sempre la macchina da presa incollata ai suoi gesti nervosi, agli occhi che divorano il mondo, alla sua pelle, al suo odore, prova di grandissima attrice per una non professionista (come quasi tutti gli altri), Daphne Scoccia, che attraversa spavalda e fragile tutto il film. La vediamo litigare con le compagne di cella – tra queste c’è anche la brava Francesca Riso protagonista de L’intervallo di Leonardo Di Costanzo – picchiarsi con le altre, finire in isolamento, fumare, aggrapparsi alle sbarre della finestra per essere più vicina al suo Josh (Josciua Algeri) fare l’amore a distanza, sentiamo i battiti del suo cuore quando ballano insieme la prima volta.

Il suo corpo inquieto, ribelle, generoso si scontra di continuo con la geometria del carcere, indocile rifiuta di sottomettersi all’umiliazione di quel controllo. È una questione alchemica, azione/reazione, come non farsi annullare, fottere il cervello e peggio ancora il cuore. Ma non è un film carcerario Fiore, pure se della letteratura di «genere» molto conserva e con precisione nella sua vita «dentro» scandita mese dopo mese, chi esce e chi arriva, le iniziazioni e gli equilibri disperati da mantenere, le rivalità, il sesso tra compagne di cella, la solitudine.

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È soprattutto una storia d’amore, la rabbia giovane di una ribellione che è vita e desiderio, un «ragazzo selvaggio» in una corsa appassionata e senza un orizzonte.
Giovannesi dispiega con delicatezza tutte le sfumature sentimentali e con la sua regia fisica (e mai compiaciuta) sfugge a qualsiasi «gabbia» di scrittura. È bravo, bravissimo a guidare i suoi protagonisti, a filmare le loro lacrime, a commuoverci, a coinvolgerci. Tutto è giusto ma la sua commozione (a differenza della Pazza gioia di Virzì) non è mai programmatica: nasce dal suo sguardo e dall’amore che mostra verso ciascuno dei suoi personaggi. Daphne non la lascia mai, è sempre lì nello spazio di un’inquadratura potente, concreta, che in questa prossimità alla trascendenza dei primi film dei fratelli Dardenne preferisce la carezza della complicità.

Questa ragazzina ci appare quasi una predestinata, padre in galera e ora ai domiciliari che non ce la fa a prendersi la figlia in casa (è Valerio Mastandrea). Vuole ricominciare, aprire un ristorante con la compagna dell’est che ha già un figlio. Magari sulla spiaggia, lungo il litorale romano che è diventato ormai una nuova e immensa periferia. Daphne gli fa paura, come occuparsi di lei, è troppo stanco. C’è la comunione del ragazzino della compagna, il pranzo, la donna a Daphne regala un vestito aderente.

Questo no future di precariato instabile però che è quello del nostro tempo ci viene narrato quasi frontalmente potandovi in fuoricampo che non c’è bisogno di spiegare. La verità è questione di cromatismi (qui di Daniele Ciprí alla direzione della fotografia) e di temperature non di lezioni di sociologia. E rispetto al personaggio di Daphne come con tutti gli altri nelle cui esperienze, almeno in alcune, la storia si mischia al vissuto, Giovannesi è sempre sullo stesso piano. Non c’è giudizio né commiserazione perché, appunto, lui li ama, ama la loro voglia di sognare, quel mondo che si prendono senza pensare a cosa accadrà, se ci sarà un prezzo che tanto hanno sempre pagato. E quando usciamo dalla sala ce li portiamo dietro, con la loro meravigliosa irriverenza che li rende quasi dei sovversivi, segni di un tempo universale e di un cinema che sa ancora essere vivo.