«Fa sempre lo stesso film». In questi giorni è capitato di sentirla spesso questa frase, detta a volte con delusione, a volte con stizza sui lavori di cineasti che negli anni hanno costruito un universo cinematografico estremamente personale e riconoscibile. Col quale si confrontano a ogni nuova opera producendo nei casi riusciti una sorta di allenamento costante, una messa alla prova di sé e delle proprie immagini. Quella «traccia autoriale» il cui rischio, se mal dosata anche di pochissimo, è di trasformarsi in una gabbia.

Prendiamo Xavier Dolan. Il «giovane» – lo è almeno anagraficamente coi suoi 27 anni – regista canadese, dopo il trionfo di Mommy sulla Croisette è quasi una rock star. Per il suo nuovo film abbiamo visto code lunghissime, scene di panico, caccia al biglietto per la proiezione ufficiale, interviste esclusive. E delusione anche per molti dei suoi fan. Quasi la fine del mondo, o Solo la fine del mondo, evento preparato nelle settimane precedenti da attente strategie pubblicitarie, foto centellinate in rete, clip assai misteriosi.

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Nella pièce teatrale di Jean-Luc Lagarce, il drammaturgo francese morto di Aids nel ’95, che lo ha ispirato, Dolan rovescia le ossessioni private che fondano tutti i suoi film: la madre amata, odiata, tiranna, amante, mondo. Il gender, le relazioni familiari, lo spazio chiuso della casa solcato da violenza, silenzi, ricatti emotivi, sensi di colpa. Il successo di Mommy gli ha permesso un cast da grosso budget rispetto agli attori quasi sempre sconosciuti con cui lavora: Nathalie Baye, Vincent Cassel, Léa Seydoux, Marion Cotillard e Gaspar Ulliel, il protagonista, Louis, figliol prodigo che torna dopo dodici anni a casa per annunciare alla famiglia che sta per morire.

Le reazioni alla sua presenza sono però così orrende che il ragazzo non riuscirà a dire nulla risucchiato nel crescendo di volgarità meschina che esibiscono la madre con le unghie blu (Baye), la sorellina inacidita (Seydoux misoginamente inchiattita), il fratello maggiore bullissimo (Cassel), la cognata che sbatte gli occhioni ebeti (Cotillard).

È «lo stesso film»? Forse. Ma se se il ragazzone stonato di Mommy esprimeva una sua intima disperazione, in questo interno piccolo borghese con massacro, domina il vuoto dell’isteria formale. Dolan, visibilmente indifferente ai personaggi, utilizza la situazione per compiacere il suo virtuosismo privo di una qualsiasi verità a sostenerlo. Per quasi due ore alterna clip, musica, estenuanti prove di attori monotono – specie le urla di Cassel. Isola i personaggi in una serie di primissimi piani, esibizione della solitudine contemporanea che tanto lo seduce, e soffoca lo spettatore con l’intento di metterlo nella stessa condizione del suo protagonista, ma è troppo preoccupato da se stesso per riuscirvi. Dunque: «lo stesso film» come esibizione di sé?

Paul Vecchiali fa sempre lo stesso film? Se con questo intendiamo che il suo cinema è una continua variazione sul piacere, la gioia, l’irriverenza sentimentale, l’erotismo, e soprattutto la libertà del filmare allora sì, Vecchiali fa sempre lo stesso film. E al suo arrivo la prima volta sulla Croisette, a 86 anni, e il mai mutato fascino elegante con Le Cancre – che sarà distribuito da The Open Reel – riesce a disseminare in una storia «comune»come l’incontro maldestro – ma solo così può essere – tra padre e figlio le tracce della sua poetica e delle sue passioni che sono sempre una dichiarazione amorosa al cinema.

Rodolphe (lo stesso Vecchiali) è un anziano signore malato e burbero, che nella sua causticità verso il mondo sembra trovare uno strano divertimento. Vive in una grande villa, ha un po’ di soldi ma non le ricchezze che tutti credono, perciò si preoccupa delle continue richieste economiche che gli fanno tutti, a cominciare dal figlio (Pascal Cervo) confuso e senza troppa iniziativa. Ma ciò che angoscia di più Rodolphe è il pensiero di Marguerite, il grande amore della vita che ha perduto.

L’amore è un breve istante di gioia, la fine dell’amore un dolore per tutta la vita gli recita una vecchia amica nel porgergli finalmente l’indirizzo della donna che di lui non vuole più saperne nulla.
Intanto appaiono le altre, ognuna con la sua storia, i suoi rimpianti, i suoi dolori, lui le amava tutte dice al figlio incredulo, e questa danza (quasi un Carnet de bal di Duvivier) tra passato e presente diviene una carrellata gioiosa su magnifiche attrici, Francoise Lebrun, Annie Cordy, Edith Scob e una sublime Catherine Deneuve che appare come un’epifania lontana sulla spiaggia.

 

Sarcastico, spudorato, innamorato, divertito Rodolphe conversa con se stesso e insieme a noi spettatori della religione e delle sue guerre, della gioia e del piacere, e a un mondo irrigidito dalle convenzioni oppone la sua poesia del desiderio proprio come il cineasta che lo impersona.

Un film di fantasmi Le Cancre – titolo di risonanza prevertiana – e struggente tenerezza. Che dichiara con leggerezza la caparbietà dell’invenzione e la gioia di condividerne le scoperte. Sì, sempre lo stesso sorprendente film.