Sostiene Fiorella Mannoia che grazie all’ascolto, quando aveva 16 anni, di Tutti morimmo a stento, entrò «nell’età adulta». Per un genovese è qualcosa da invidiare, alla fin fine, perché noi di De André non possiamo ricordare «il» momento del primo ascolto. È come ci fosse sempre stato; De André per i genovesi è nel Dna. Ed essendo genovesi, refrattari a parlare più di tanto di noi, De André tendiamo a difenderlo da sguardi esterni, a custodirlo, percependo un sentimento primigenio nel momento in cui ci ritroviamo a canticchiare «guardala guardala guarda i capelli, sono più lunghi dei nostri mantelli». De André sta a un genovese, come il Genoa sta a De André: Faber sosteneva di non poter scrivere del Genoa perché troppo «coinvolto» e ancora di essere «genoano prima della nascita», così come un genovese è de andreiano ancora prima di nascere.

CI VUOLE DUNQUE, forse, uno sguardo esterno, di un «foresto», per ricacciare indietro il magone e l’intoccabilità del suo ricordo, per trovare spazi di novità sulla vita del cantautore genovese a vent’anni dalla sua morte. E in La Genova di De André, da corso Italia a Via del Campo (Giulio Perrone editore, pp. 119, euro 15) Giuliano Malatesta lo fa in modo egregio, con una scrittura piacevole e colma di riferimenti incrociati e attraverso l’indagine dello «sfondo» a tutto quanto fu De André.

Fabrizio De André

Da non genovese, Malatesta può permettersi virate particolari, cogliendo il clima di quella «(non) scuola genovese» che vide degli sfaccendati e fondamentalmente fancazzisti, diventare il simbolo della canzone impegnata. Il capitolo sul gruppetto che vedeva tra gli altri Lauzi, Paoli, Bindi (incredibile come la sua vena poetica non risieda tra i grandi cantautori italiani) e Tenco (che firmava le sue prime apparizioni da musicista con pseudonimo per non ledere la sua supposta carriera da ingegnere) è spassoso e incredibilmente rivelatore del clima che si respirava nella città portuale aperta alle contaminazioni esterne, ma ancora incredibilmente conservatrice. Del resto lo stesso Fabrizio lottò – forse – tutta la vita con quello spirito della città: un modo come un altro per fare a pugni con la propria estrazione sociale, borghese e benestante, e quello che sarebbe diventato, ovvero il simbolo degli ultimi, dei drogati, dei diseredati.

QUEL GRUPPETTO di belinoni, come si dice a Genova, un po’ per darsi un tono, un po’ per indubbie capacità di scrittura, un po’ per fortuna, divenne simbolo di un rinnovato impegno politico nella canzone e la dimostrazione di poter campare scrivendo canzoni (per quanto un altro cantautore – non a Zena, ma tra la via Emilia e il West – avrebbe ricordato che «Credete che per questi quattro soldi, questa gloria da stronzi, avrei scritto canzoni»). Malatesta è bravo a scovare origini ed episodi che grattano via quell’aurea da «maledetti» di un giro di persone che aveva pur sempre vent’anni o poco più, che scriveva canzoni tristi perché, come disse Lauzi, «quando sto bene esco». O che si innamorava «perché non ho niente da fare», come scrisse Tenco. O ancora che, ubriachi fradici al ritorno da qualche scampagnata sonora, si divertiva a storpiare «la Bibbia» di Marinella in una maniera talmente greve e volgare da confermare che a vent’anni «si è stupidi davvero».

IL PERCORSO di Malatesta scende nelle profonde vene dei quartieri bene di Genova, Albaro, dove viveva la famiglia De André, e quella specie di New Orleans genovese che era il quartiere della Foce – «Allora la Fuxe de Zena era considerato un quartiere “post-moderno”, che teneva insieme popolo e borghesia, due mondi che oggi non potrebbero essere più distanti» – estesa fino a Corso Italia e a Boccadasse, dove viveva il meno dotato di tutti, Gino Paoli. E come tutti i meno dotati finiva per offrire beni materiali: una casa dove ascoltare la musica che arrivava da fuori. Su Paoli Malatesta riporta le parole di «Gianfranco Reverberi, musicista, compositore, arrangiatore, la persona che più di ogni altra ha contribuito a costruire il mito della (non) Scuola genovese». Tenco si presentò proprio da Reverberi, sostenendo di avere conosciuto «uno che dice di saper suonare la batteria». «Il ragazzo venne immediatamente messo alla prova “ma il test si rivelò un disastro. Alla batteria e alla chitarra. Non contento, con una tromba appena acquistata ci volle far ascoltare la musica di Ascensore per il patibolo, che Miles Davis aveva composto per il film di Louis Malle. Non azzeccò neanche una nota”. Il ragazzo si chiamava Gino Paoli».

Malatesta, naturalmente, attraversa anche i carruggi raccontati da De André, che pure non frequentava solo quegli ambienti, testimoniando la straordinaria città meticcia che era Genova all’epoca tra marinai, vecchie prostitute e transessuali alla scoperta di vico Maddalena e dintorni, luoghi che si specchiano nella strada più signorile della città, Via Garibaldi, e ancora oggi carichi di legere e loschi passaggi umani.

L’autore ha diversi meriti: estrarre De André dai luoghi comuni e soprattutto mostrarci autentici gioielli nascosti. Uno sicuramente è rappresentato dalla storia della «Borsa d’Arlecchino», locale realizzato «nel fondo di un vecchio bar di Genova, il Caffè Borsa» e luogo di avanguardia teatrale, dove anche De André si ritrovò a cantare canzoni francesi, o da personaggi come Riccardo Mannerini, «un poeta cieco di rabbia», fondamentale nella storia della musica d’autore e non solo per De André, senza il quale non sarebbe nato Tutti morimmo a stento e con il quale probabilmente Faber ruppe per questioni fondamentali per un genovese, le palanche, i soldi.

Anche su Mannerini, Malatesta squarcia il velo del poeta rabbioso e lugubre, ricordando la sua grande capacità di ridere e – come il resto della banda – di rendersi protagonista di sketch e scherzi sempre molto vicini a crollare nel cattivo gusto, come quando «si vestiva con il baraccano, indossava il turbante e si recava, accompagnato da due suoi amici complici, al Salone Nautico di Genova, allora in gran spolvero, con l’obiettivo di estorcere informazioni sui costi delle barche più lussuose in mostra». Prima di tutto, però, come ricorda Malatesta, «Mannerini fu “un poeta con la P maiuscola”, secondo il suo amico Fabrizio De André, che lo definì come “una delle figure più importanti della mia vita». Si conobbero nell’autunno del 59, da Elia, vecchia trattoria frequentata da marinai e contrabbandieri. «Scorbutico, antipatico, beveva molta birra, dopo il quarto, quinto bicchiere cominciava già a rompere i coglioni, però era intelligente, acuto, bravo».

PER UN BREVE PERIODO, intorno alla fine degli anni Cinquanta, vissero assieme in salita Sant’Agostino, ma il loro sodalizio artistico si concretizzò nel biennio ’68-69, quando uscirono due storici 33 giri che ancora oggi si contendono il primato di primo concept album della canzone italiana. «Il primo è Tutti morimmo a stento, l’album di De André all’interno del quale è presente, come canzone d’apertura, il Cantico dei drogati, scritta dal cantautore genovese assieme all’amico partendo dai versi di Eroina».

Aspetti di tutto quanto che c’è sull’altra faccia della luna, per tornare alle parole di Fiorella Mannoia a proposito della scoperta di De André. E il libro di Malatesta popola questa dark side, di altre scoperte, di altre storie, di altre facce della luna.