Domani mattina, nel cortile antico del Bo a Padova, la cerimonia dell’alzabara sarà davvero… un’altra storia rispetto al rito accademico. L’addio a Silvio Lanaro, 70 anni, è nella testa e nel cuore di chi ha imparato con lui a scavare oltre la banalità di manualetti, luoghi comuni e retorica posticcia. Maestro esigente quanto generoso, incarnava lo spirito della libertà di trasmettere «nozioni» urticanti proprio perché aveva appreso per primo l’insopprimibile gusto di denudare il conformismo ideologico e universitario. Lanaro è spirato domenica pomeriggio per i postumi di un delicato intervento chirurgico, dopo che era riuscito a superare un infarto a Capodanno. Lascia il fratello Paolo e i figli Ugo e Nicola.
Vicentino di origine, Lanaro è stato allievo di Federico Seneca (altro inarrivabile maestro di storia) e ha cominciato ad insegnare Storia del Risorgimento al Liviano. Meritava già la cattedra da ordinario, ma subì il veto di Spadolini e incassò l’ostilità dei baroni locali. Ha continuato imperterrito a compulsare documenti, scrivere libri e appassionarsi con i giovani. Fino ad uscire dai ruoli dell’Università, festeggiato l’autunno scorso nella cornice dell’aula Nievo in occasione della pubblicazione di Pensare la nazione (Donzelli, pp. 287, euro 28), volume curato da Mario Isnenghi e Carlotta Sorba (suo, sempre per Donzelli, anche Retorica e politica uscito nel 2011).
Lanaro è stato una delle rare voci critiche rispetto alla deriva della sinistra a Nord Est. Di fronte al «teorema 7 aprile» non aveva esitato ad evidenziare l’abdicazione della politica nei confronti della «supplenza» della magistratura. Con Isnenghi si era speso in convegni, seminari, dibattiti promossi dall’Istituto Gramsci Veneto. Ed è sempre intervenuto a raddrizzare la barra nei confronti delle mitologiche tesi sul «modello veneto», sul federalismo più o meno leghista, sulle suggestioni sussidiarie al berlusconismo.
Il prezioso lavoro di Lanaro è ormai una monumentale eredità della res publica. A cominciare da Nazione e lavoro (pubblicato da Marsilio nel 1979) che letteralmente riscrive l’Italia fuori dagli schemi viziosi e dentro le biografie che parlano da sole. O dal volume dedicato al Veneto nella Storia d’Italia (Einaudi 1984), di nuovo in un orizzonte irriducibile alle scenografie della convenienza. Fino a Storia dell’Italia repubblicana (Marsilio 1994) e Raccontare la storia (Marsilio, 2004).
Tuttavia, Lanaro si è perfino superato nella conversazione. Annichilito dal destino personale, non ha mai smesso di dialogare. A modo suo, anche con il manifesto. Solitario e tecnologicamente isolato, però sempre pronto a inquadrare le storie dell’attualità: «Quando finirà questa crisi, il modello di sviluppo della nostra regione sparirà. Le piccole aziende si eclisseranno. Resterà un’economia asciugata, una società più povera di adesso. Ma ci sarà anche un Veneto più austero, più serio e meno smodato nelle manifestazioni di ira razzista» afferma in una recente intervista.
Lascia la cattedra, ammonendo i magnifici retori («riformatori» spudorati con Berlinguer o Gelmini) sull’Università ridotta a piccolo liceo. Prima di lasciare anche la vita, boccia la politica: «Sono sconfortato e preoccupato, mancano la cultura e il senso morale dentro i partiti. I grillini sono la schiuma che distilla il peggio della società. Il Pd è floscio, poco solido e privo di agganci profondi. Il Pdl ha partecipato attivamente alla corruzione morale del Paese. La Lega è fenomeno di degrado della vita collettiva italiana». E suggerisce ai giovani storici di applicarsi al turismo e alle percezioni: «Per capire i flussi di persone nel nostro territorio e come cambiano la nostra mentalità. E per definire noi stessi mediante lo studio del cambiamento delle rappresentazioni che gli stranieri hanno avuto nel corso degli anni».[FIRMA_SOLA]