Immaginate di essere in aereo. Una delle ali si incendia ad alta quota. Vi fate prendere dal panico nonostante l’hostess e tutti gli altri passeggeri ostentino tranquillità. Riuscite a raggiungere la cabina di pilotaggio, ad entrare per parlare con il pilota e, nel vostro più profondo stupore, scoprite che la cabina di pilotaggio è vuota. Con questa storia metaforica inizia Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendij (Einaudi, euro 18), un’inchiesta a metà tra il giornalistico e l’etnografia dedicata al mondo della finanza internazionale post-crisi.

Luyendij è un giornalista al quale il Guardian ha affidato due anni fa il compito di raccogliere interviste nella City londinese per cercare di spiegare al grande pubblico cosa fosse cambiato in questi anni. Ne è nato un blog («Banking Blog») presto frequentato da migliaia di utenti i cui post sono alla base di Nuotare con gli squali.

IL PRESUPPOSTO metodologico dal quale parte Luyendij è che per comprendere la finanza occorre decodificarne il mondo sociale: diversamente da come fanno gli economisti, che oscillano tra l’integrazione totale e la trattazione dell’economia come fosse un oggetto, da analizzare all’esterno, Luyendij pensa che sia più utile sviluppare uno sguardo dall’interno. Dalle decine di interviste raccolte (la maggior parte delle quali rilasciate in anonimato) emerge un messaggio inquietante: il mondo della finanza continua ad essere totalmente impermeabile alla democrazia. Soprattutto, la crisi sembra passata invano poiché nessun significativo cambiamento strutturale è intervenuto a correggere quei meccanismi che l’hanno generata e i cui costi sono stati variamente scaricati su di una collettività che, a differenza di quanto accaduto dopo il 1929, non ha avuto nulla in cambio né in termini di politiche espansive né di controllo pubblico sulle grandi banche.

Il secondo punto che emerge dall’inchiesta di Luyendij, forse il più significativo e delicato, consiste nell’aver evidenziato come nella bolla dell’alta finanza domini una sostanziale acefalia: il sistema è diventato così complesso che nessuno (compresi i vertici delle grandi istituzioni finanziarie di controllo e quelli delle stesse banche) è in grado di governarlo e di comprenderne tutti i meccanismi di funzionamento.

A TUTTO CIÒ si accompagna un’altra tendenza che rende il quadro ancora più fosco: il mercato finanziario tende ad essere sempre più dominato, a tutti i livelli, da giganteschi oligopoli tutti interconnessi tra loro. Ad esempio, nel campo della revisione e della valutazione dell’affidabilità di un’istituzione economica questo vuol dire che i «controllori» – quelli che assegnano o negano la tripla A, teoricamente indice di massima affidabilità – sono allo stesso tempo pagati dai soggetti che devono essere valutati.
La conseguenza di tutto questo è chiara: se non esiste un piano consapevole, un complotto esplicito ai danni dei cittadini né una classe dominante propriamente detta al comando del tutto, esistono una miriade di interessi a breve termine (ma di entità gigantesca) che muovono il sistema, realizzano profitti totalmente sganciati dall’economia reale e dal controllo democratico.

LA POLITICA HA ABDICATO volontariamente dal suo ruolo di controllore e di ambito volto a promuovere l’interesse pubblico. Insomma, la cabina di pilotaggio della finanza globale è vuota perché è stato volontariamente svuotata e il sistema non è stato riformato consapevolmente. Eppure, anche solo muovendosi in un’ottica riformista, i cambiamenti da apportare sono evidenti per Luyendij: parcellizzazione delle banche in modo che non siano «troppo grandi per fallire» e dunque ricattarci; netta divisione tra i vari rami di attività in modo da evitare conflitti d’interesse; ridurre la complessità di prodotti finanziari, sempre più difficili da comprendere per la maggior parte dei profani ma anche dei professionisti; rivedere il sistema di incentivi in modo tale che per il management accanto ai «bonus» siano previsti anche i «malus» in caso di grossi errori nella gestione. E qui sorge la domanda più dirompente del libro, che ci proietta nell’attualità del populismo dilagante e delle sue contraddizioni, come quella di votare in nome della lotta alla finanza internazionale e al suo strapotere un leader come Donald Trump, egli stesso finanziere: mentre la democrazia nazionale appare sempre più incapace di fronteggiare le sfide della globalizzazione finanziaria, quali sono le possibilità effettive di costruire un vero governo globale in grado di intervenire sul Moloch finanziario prima che ci trascini tutti nella barbarie?

Questa domanda aperta con la quale si conclude sostanzialmente il libro di Joris Luyendij appare retorica poiché queste possibilità sono attualmente pari a zero: allora delle due l’una; o le mobilitazioni di base in tutto il mondo saranno in grado di rinnovare le classi dirigenti e dar avvio ad un meccanismo cosmopolita, soft e post-nazionale di governance internazionale; oppure nulla potrà arrestare un pericoloso processo di rinazionalizzazione a base populista degli Stati, in grado di promuovere solo una svolta reazionaria nelle società occidentali.