Una lunga fila di uomini in tunica e cappuccio bianchi che marciano lungo Pennsylvania Avenue, la strada che a Washington collega la sede del Congresso alla Casa Bianca: il cuore del potere degli Stati Uniti. Si tratta di una foto celebre, scattata nell’agosto del 1925 che fissa il momento di massima diffusione del Ku Klux Klan che arrivò in quel periodo a raccogliere tra i 4 e i 6 milioni di aderenti, comprese diverse centinaia di migliaia di donne. Un’immagine che campeggia sulla copertina dell’ultimo volume della storica femminista Linda Gordon dedicato al «ritorno» del Klan negli anni compresi tra le due guerre mondiali (The second coming of the Kkk, Liveright Publishing Corporation) e che, come ha sottolineato il New York Times recensendo l’opera della storica, non può che suscitare inquietudine se osservata dal Paese che ha eletto Donald Trump e che solo un paio d’anni fa ha visto sfilare migliaia di giovani bianchi nel campus dell’università di Charlottesville, in Virginia, con slogan e simboli che evocavano la Kristallnacht della Germania nazista.

AL PARI DI ALTRI STUDI apparsi dopo l’elezione di The Donald – tra i quali si possono segnalare Behold, America della storica britannica Sarah Churchwell (Bloomsbury) e Bring the War Home, della ricercatrice di Stanford Kathleen Belew (Harvard University Press) -, il libro di Gordon si sofferma sull’apparente banalità di questa volto fascista dell’America, indicando come da quel drammatico passato si possano cogliere degli elementi per leggere il presente. Come nei romanzi di Kurt Vonnegut, Gordon osserva con apparente nonchalance l’orrore quotidiano di una società che si apriva al Klan in una fase di modernizzazione, sviluppo e rapida crescita delle realtà urbane, facendo spesso coincidere l’adesione all’organizzazione razzista con l’affermazione di una nuova borghesia cittadina e di uno «stile» urbano che all’insegna dello slogan «100% americani» vedeva emergere anche un inedito protagonismo femminile. Il Klan del primo dopoguerra sponsorizzava squadre di baseball, fiere di contea, confraternite universitarie e concorsi di bellezza, in cui le giovani donne gareggiavano per il titolo di «Miss 100% America».

PUR EVIDENZIANDO le evidenti asimmetrie tra la realtà dell’epoca e quella odierna, la storica della New York University sottolinea di aver svolto questa ricerca non certo con uno spirito accademico, quanto piuttosto per offrire un’interpretazione di quanto sta accadendo ancora oggi negli Usa: «Ora che le idee dell’estrema destra sono tornate ad essere così mainstream».
Il «secondo Klan» cadde sotto i colpi di una serie di scandali sessuali e finanziari e dei devastanti esiti sociali della crisi del 1929, oggi, sottolinea il New York Times, qualcosa di analogo potrebbe avvenire con i diversi casi che minacciano la presidenza Trump, malgrado il percorso parlamentare dell’impeachment, appena inaugurato dall’opposizione democratica, sia probabilmente destinato a concludersi con un nulla di fatto.

David Neiwert

L’IDEA CHE ESISTA non tanto una particolare propensione americana al fascismo, quanto piuttosto la possibilità di attingere alle culture della destra radicale nei momenti di maggiore crisi o trasformazione del Paese – la Ricostruzione dopo la Guerra civile, nell’Ottocento, gli anni Venti, il post-’68, gli anni Novanta e, infine, l’ultimo decennio caratterizzato dalla prima presidenza guidata da un afroamericano, nello scorso secolo -, fa da sfondo anche allo studio più attuale e completo dedicato a questo tema: Alt-America. L’ascesa della destra radicale nell’era di Trump di David Neiwert (Minimux Fax, pp. 430, euro 19, traduzione di Fabrizio Coppola).

Tra i più noti giornalisti investigativi degli Stati Uniti, Neiwert studia da anni gli eredi del Klan, dalle Milizie degli anni Novanta all’attuale circuito della Alt-Right, pubblicando inchieste e saggi e collaborando con le maggiori istituzioni antirazziste, come il Southern Poverty Law Center di Atlanta. Allo studio dei movimenti e delle ideologie del radicalismo di destra ha sempre affiancato un’attenzione particolare per quanto accadeva nel campo conservatore, descrivendo passo dopo passo il processo che ha condotto alla radicalizzazione dei media di destra e dello stesso Partito repubblicano durante la presidenza Obama: il retroterra immediato dell’ascesa di Trump, dalla conquista delle primarie del Gop fino alla conquista della Casa Bianca.

UN ITINERARIO che in Alt-America ripercorre in qualche modo all’inverso per descrivere in che modo, e attraverso quali canali, le tesi dell’ultradestra sono passate da una pur sempre sinistra e minacciosa marginalità a quella che può essere descritta come la conquista, se non l’egemonia, dello spazio pubblico. «Non si trattava infatti di un fenomeno nato nel corso di una notte. – spiega Neiwert – I bidoni dell’immondizia dati alle fiamme da Trump con la sua campagna per le presidenziali si erano riempiti lentamente e in silenzio per anni».

NELLE PAGINE che introducono la sua inchiesta, il reporter si sofferma non a caso sul ritorno della violenza razzista, ricordando come all’indomani dell’annuncio della propria candidatura da parte del tycoon newyorkese, la «discesa in campo» celebrata alla Trump Tower della Quinta strada con la promessa del Muro e le parole di odio all’indirizzo dei migranti messicani, un bianco poco più che ventenne, Dylann Roof, entrò in una chiesa nera di Charleston, in South Carolina, con l’intento di compiere una strage: ucciderà nove afroamericani. La sequenza di quei fatti fu una pura coincidenza, eppure un filo inestricabile sembra averli legati, come espressione degli umori che andavano montando nel Paese. «Soprattutto quelle due vicende segnalavano, in modi diversi, un cambiamento profondo nel panorama culturale e politico americano: la destra radicale – violenta, paranoica, razzista e colma d’odio – era tornata per vendicarsi. In realtà non era mai scomparsa del tutto. E adesso disponeva di un candidato alla presidenza».

Se la «novità» della figura di Trump risiede proprio, da questo punto di vista, nell’aver offerto un megafono e una platea fino a quel momento insperabili alle diverse correnti, e tesi, della destra radicale, Neiwert si sofferma in particolare su due aspetti che hanno accompagnato questo processo.

Ripercorrendo la stagione inauguratasi negli anni Novanta, quando i duri costi sociali della globalizzazione e la contemporanea volontà dell’amministrazione Clinton di limitare la pericolosa circolazione delle armi nel Paese furono alla base di una nuova fioritura di movimenti «patriottici», spesso a vocazione paramilitare, il giornalista sottolinea il ruolo giocato dalle teorie cospirazioniste come vero collante ideologico di un fenomeno altrimenti disperso in mille rivoli che vanno dalla riproposizione del suprematismo bianco tout court alla denuncia del «Nuovo ordine mondiale» fino alla riaffermazione di un’identità maschile che si vuole minacciata dal femminismo o dal nuovo ruolo assunto dalle donne nel Paese.

«Nella vita pubblica americana – ricorda l’autore in proposito – esiste una dimensione alternativa, uno spazio mentale oltre i fatti e la logica, dove le regole dell’evidenza sono sostituite dalla paranoia». Neiwert parla esplicitamente di un’autentica «industria della cospirazione» che produce senza sosta, e pressoché su ogni argomento, nuove teorie da contrapporre alle informazioni diffuse dai media principali, ma che sempre più spesso si espande fino a invadere l’informazione mainstream. Un circuito informale, inizialmente riconducibile ad un network di conduttori radiofonici che con le loro trasmissioni raggiungono anche gli angoli più isolati del Paese, cui contribuiscono sempre più spesso altrettanti «imprenditori internettiani», e che alimenta «centinaia di migliaia di discussioni online, nei forum, su Facebook e su Twitter; un’orda di blogger, predicatori politici casalinghi su You Tube e ideologi dell’estrema destra».

L’ALTRO ASPETTO cui Neiwert dedica particolare attenzione riguarda lo sviluppo di quella sorta di sottocultura pop che ha preso il nome di Alt-Right e che sembra incarnare il volto più giovanile e innovativo della nuova offensiva del radicalismo di destra. Se le idee sono quelle del «nazionalismo bianco», che descrive i «bianchi» come una sorta di specie a rischio, minacciati da minoranze e immigrati, questa tendenza ha acquisito visibilità e spazi inediti intorno al 2013 nel cosiddetto «gamergate» che ha visto svilupparsi tra i frequentatori di siti e social dedicati ai videogiochi un’autentica campagna – c’è chi ha parlato di una versione su scala ridotta delle «guerre culturali» degli anni Sessanta – anti-femminista, contro la presenza di ogni traccia di critica sociale nei giochi stessi e che ha finito per saldarsi con lo sviluppo di una nuova comunità online formata da persone, spesso giovani e giovanissimi, «che condividevano l’amore per i “valori tradizionali” e sostenevano la necessità di difendere la razza bianca». Solo un timido assaggio d ciò che i troll dell’estrema destra e i nuovi media online, su tutti Breitbart News di Steve Bannon, avrebbero fatto pochi anni più tardi nel corso della campagna che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca.