Indagando le modalità fondamentali attraverso le quali si costituiscono le società umane, Mary Douglas – in Purity and Danger – attribuiva un ruolo sostanziale alla definizione della sporcizia. «Lo sporco non è mai un evento unico, isolato. (…) Esso è il sottoprodotto di una ordinazione e di una classificazione sistematica delle cose». Nell’identificare ciò che è sporco e, quindi, ciò che deve essere espulso, si definisce – di converso – quanto viene considerato consono, per una data società, e di conseguenza ciò che non solo appartiene a questa ma che contribuisce attivamente a costituirla – così come vi contribuisce lo sporco attraverso la necessità della propria assenza.
In maniera indiscutibile, il mondo occidentale si è strutturato (nel corso degli ultimi secoli) attraverso un processo progressivo e incessante di esclusione della Natura in quanto tale. Materie del tutto comuni quali terra, sabbia e fango, se presenti al di fuori di confini rigidamente definiti, vengono considerate – con una intensità crescente – elementi fastidiosi, repellenti e fortemente contaminanti. Questa azione di graduale addomesticamento, delimitazione e sottomissione dell’elemento naturale, attraverso l’uso di tecnologie sempre più progredite e sofisticate, ha tra le sue cause (e come esito primario) la creazione di un universo che possa apparire, all’essere umano, il più possibile confortevole. Sebbene l’ordine naturale sia stato sensibilmente dissestato attraverso le trasformazioni impostegli da una società ipertecnologizzata, l’inarrestabile diffusione del comfort non è mai stata messa in discussione, anche per l’intima fiducia – comune a molte delle culture contemporanee – della sostanziale positività dell’evoluzione tecnica compiuta dall’uomo, nel procedere temporale.
Così, la possibilità di un profondo ripensamento di tale sistema si arresta, come affermava Marcuse, in quell’inciampo «senza precedenti» determinato dalla «urgenza di liberazione da una società che soddisfa in buona misura i bisogni materiali e anche culturali dell’uomo; una società che, per usare una frase fatta, dispensa i beni a una parte sempre più ampia della popolazione».
A scalfire questa accettazione condivisa (colmando la quasi totale assenza di studi, riguardanti le trasformazioni imposte dalla crescente espansione della comodità nelle società contemporanee) ha provveduto Stefano Boni, con Homo comfort; il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze (Elèuthera, pp. 224, euro 14). Il merito più evidente dell’autore è quello di aver saputo organizzare – in un sistema ricchissimo di rimandi teorici e di elementi analitici – un discorso articolato e denso intorno a un oggetto di studio per nulla semplice da valutare. In maniera dettagliata, Boni si preoccupa di esaminare in quale modo – con il passaggio da una società ipotecnologica a una ipertecnologica – si sia modificato il rapporto tra natura ed essere umano, da un punto di vista politico ed economico, oltre che culturale.
«Interrogare la comodità ha senso perché il processo che l’ha generata è stato sottratto a un esame approfondito sulle conseguenze sensoriali della diffusione degli attuali regimi di consumo». D’altro canto, si sarebbe reso necessario osservare con attenzione anche le cause che, a partire dal XVIII secolo, hanno gradualmente determinato l’affermarsi di questo preciso sistema. Purtroppo, è proprio la banalizzazione, compiuta da Boni, di tali processi trasformativi (semplicemente assunti in quanti tali, se non attribuiti alla volontà speculativa di una non meglio definita «casta finanziario-imprenditoriale») a indebolire sensibilmente la validità scientifica e analitica di questo volume. Il rifiuto di una contemporaneità che ha raggiunto uno stadio critico (e che per questa ragione richiede di essere studiata con cura e senza impetuosa partigianeria) si esaspera nella ricostruzione nostalgica e falsata di un passato rurale limpidamente bucolico, di una perduta età dell’oro priva di fondamento storico.
Il tentativo di risvegliare le coscienze di un’umanità intorpidita dall’inarrestabile affermazione della comodità naufraga così, ineludibilmente, nella esaltata profezia di un imminente collasso