Cafè Society, Hail! Cesar, LaLaLand, The Nice Guys….forse anticipando il bisogno di evasione dalla realtà che avrebbe pervaso milioni di americani quest’autunno, il 2016 è stato un anno ricco di film su Hollywood. Dalla villa di Dolores Del Rio, immersa nella luce turchese di Vittorio Storaro nel film di Woody Allen, ai western musicali e ai balletti acquatici ricreati dai fratelli Coen sullo sfondo della Caccia alle streghe maccartista, alla struggente Boheme color caramella del musical di Damien Chazelle, ai seventies elettrici, lisergici e iperbolici di Shane Black – sono squarci di un pianeta bellissimo da guardare, visite guidate in una fabbrica del sogno – geniale, insidiosa, spesso ridicola, occasionalmente spietata, ma irresistibile.

In questo sontuoso, emozionante, caleidoscopio hollywoodiano, Rules Don’t Apply (L’eccezione alla regola nell’adattamento italiano, da noi lo vedremo nel marzo 2017), l’ultimo film di Warren Beatty, è uno dei suoi lavori più strani, belli e personali. Sicuramente quello più vicino all’autobiografia. Il titolo – le regole non sono applicabili – è una dichiarazione d’intenti valida per il suo soggetto (apparente) – il miliardario, produttore, pilota, capitano d’industria, «recluso», Howard Hughes- e per il suo sceneggiatore/regista/protagonista.

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Assente dietro alla macchina da presa da Bulworth – la sua magnifica, attualissima, satira su un senatore californiano che, alle prese con un giovane avversario populista, improvvisa una demenziale campagna rap – il regista di Dick Tracy e Reds, che oggi ha settantanove anni, ha infatti tracciato un percorso artistico controllatissimo, irregolare, e del tutto originale – il suo è un personaggio che risponde ai requisiti canonici, molto establishment, della «star» e, allo stesso tempo a quelli di un maverick, che quell’establishment lo sovverte. Un ibrido che ha il suo archetipo più geniale e tragico in Orson Welles. Beatty lavorava da anni a un film su Hughes, di cui in realtà ha incontrato solo «l’aura», quando – da poco arrivato a Los Angeles e in seguito al successo di Splendore nell’erba– stava al Beverly Hills Hotel, dove Hughes occupava numerose stanze e una decina di bungalow, che riservava per le giovani attrici sotto contratto al suo studio, la RKO.

Diversamente dall’energetico, ossessivo Hughes di Leonardo Di Caprio in The Aviator, e da Jason Robards vecchio confuso e stropicciato di Melvin and Howard, il grande film di Jonathan Demme sull’ipotetico incontro tra il tycoon e un giovane benzinaio, lo Hughes di (e interpretato da) Beatty è una figura fantasmatica, che si materializza dal buio nei coni di luce appositamente creati per le sue apparizioni dalla splendida fotografia di Caleb Deschanel, per scomparire subito dopo. A un certo punto, in un momento molto Mago di Oz, comunica solo da dietro a una tenda, nella suite miliardaria di un hotel di Acapulco. Il film si svolge infatti a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta, quando Hughes, aveva già realizzato i suoi film più famosi e scandalosi (Hell’s Angels, Scarface e The Outlaw) ed era avanti con gli anni, consumato dall’ eccentricità, dalla sfrenata passione per l’aeronautica e da un braccio di ferro con il consiglio d’amministrazione della (sua) Trans World Airlines, che sospettava fosse pazzo.

Alle redini della RKO, Hughes era praticamente l’unico individuo che controllava uno studio di sua proprietà in una Hollywood che, dalla prima generazione di mogul, stava passando nelle mani di cartelli finanziari. È in quella stessa Hollywood che Warren Beatty (e sua sorella Shirley McLaine) arrivarono proprio in quegli anni, formati da una rigida educazione di stampo battista in Virginia.

Anche Rules Don’t Apply, inizia con l’arrivo a Hollywood di una giovane speranza, Marla Mabrey (Lily Collins, figlia di Phil), a cui è stato promesso un ruolo in uno dei futuri film di Hughes. Come Beatty, anche Marla – che ha la bellezza pura di una porcellana e ricorda Elizabeth Taylor a diciotto anni – è stata cresciuta da una severa e affettuosa mamma battista (Annette Bening). Ad accoglierla all’aeroporto è un altro personaggio in cui Beatty chiaramente ri-vede se stesso, autista poco più che ventenne di nome Frank Forbes (Alden Ehrenreich, cowboy canterino in Hail!Cesar e il futuro Han Solo nel prossimo Star Wars), che, essendo cresciuto metodista, è solo poco meno religioso di Marla. Nell’incontro dei due giovani, innocenti, repressi e ambiziosi, con il seducente, corrotto, lussuoso e cinico richiamo di Hollywood, Beatty mette in scena la sua gioventù. La tensione tra desiderio sessuale e puritanesimo tra Marla e Frank ricorda non a caso quella tra Beatty e Natalie Wood in Splendore nell’erba. Anche i colori, lo stile e il look del film ricordano il cinema del ’50.

Da dietro alla tenda (come il mago di Oz), la sua voce che arriva dal telefono o da misteriosi altoparlanti, Hughes è un burattinaio che non si vede per gran parte del film. Marla studia recitazione, dizione, belle maniere e vive in un’elegante casa che si affaccia sull’Hollywood Bowl, aspettando il provino di un film che forse non esiste e di incontrare l’homo che l’ha convocata in quel mondo. Frank, che sogna di farsi finanziare da Hughes una catena di villette in cima a Mullholand Drive, scorrazza starlet di appuntamento in appuntamento e cerca di tenere sotto controllo la sua cotta per Marla: le attrici sono off limits, pena licenziamento istantaneo.

Quando «il burattinaio» finalmente appare ai due ragazzi, però, sono momenti bellissimi – geniale, manipolatore, svanito, patetico, visionario, infantile, rapace… – Beatty modula la sua interpretazione in mille sfumature, tutte emozionanti. Che stia mangiando un hamburger con Frank, di fronte al suo Hercules, il mega aereo soprannominato lo Spruce Goose, o che ammiri ipnotizzato l’effetto dirompente che ha sulla morigerata Marla una bottiglia di champagne – il suo Hughes ha lo sguardo ironico, distante, addolorato/divertito di una persona che ormai scruta la realtà da un mondo altro.