L’aggiunta al titolo originale di «Un caffé a Berlino» sarà venuta ai distributori perché quella tazzina costa ben 3 euro e 40 al protagonista Niko (Tom Schilling) che ne ha veramente bisogno dopo aver affrontato lo psicologo della municipalità. Ha deciso di non rinnovargli la patente perché recidivo e perché il suo ultimo tasso alcolemico alla guida è risultato essere dello 0,07%. Nell’arco di quella giornata avrà ben altre occasioni di doversi tirare un po’ su. Il suo attraversamento di Berlino potrebbe ricordare quello di Antoine Doinel alla ricerca del lavoro o di Andrzej Leszczyc di Rysopis che, studente di ittiologia espulso dall’università deve presentarsi alla visita di leva e si muove freneticamente per Lodz nelle poche ore che gli restano in città. Per non parlare di Michel Poiccard in À bout de souffle (ma quella è una vicenda che si tinge di noir), più vicino alla pacatezza di Michele Apicella, universitario più diligente.

Il bianco e nero di Oh Boy ci collega immediatamente ai film flaneurs tipici del cambiamento epocale e lo sguardo di Jan-Ole Gerster ha la freschezza del film d’esordio non senza un lungo allenamento, assistente di Wolfgang Becker per Good Bye Lenin! con Oh Boy vincitore di ben sei premi della German Academy. Ha coltivato lo speciale tono della generazione oltre il muro e in più riproduce l’ironia tipicamente berlinese con i sottintesi delle metropoli, caratterizzata in più dal tono brusco e sbrigativo. Niko non ha bisogno di tante parole per chiudere appena sveglio con un rapporto senza futuro, non cerca di intortare lo psicologo, ascolta pazientemente l’inquilino che lo viene a trovare per scambiare qualche parola e che è sprofondato in una solitudine senza via d’uscita tanto da giocare al biliardino da solo.

Resta senza parole quando il padre senza tanti giri di parole anche lui, gli comunica al golf club che gli ha tagliato i viveri perché ha scoperto per caso che da due anni ha lasciato l’università. Per fare cosa? gli chiede il padre. «Per meditare su di te e su di me», gli risponde Niko. «E io ti passo mille euro al mese per meditare su di me?» è la risposta tagliente del padre che ricorda i tempi inesorabili di Io sono un autarchico. Non ci saranno stati forse spettatori che si sono sentiti male dal gran ridere come avvenne alla prima del film di Moretti – in fondo è sempre un film tedesco – ma i presupposti ci sono, soprattutto se si conoscessero le situazioni più da vicino (il teatro off, i bulli da strada, le macchinette che non funzionano, le ragazze attaccabrighe, gli spacciatori che vivono con la nonna).

Alla fine si vedrà che Niko qualcosa l’ha imparata dalla facoltà di legge. Nel bianco e nero la grafica della città si staglia dall’alba al tramonto, con i treni, i grattacieli, i graffiti che tracciano linee severe o anarchiche. Anche il jazz dei Major Minors (ma il titolo è citazione dai Beatles), è un ricordo da nouvelle vague. Il regista affermava infine di averne abbastanza dei film sui nazisti e la scena finale riesce a fare definitivamente i conti con quelle immagini del passato con equilibrio perfetto.