Circumnavigare le sanzioni statunitensi all’Iran è manovra ardita. Non solo per l’Europa, alle prese con l’impalcatura del sistema Instex per commerciare con Teheran bypassando Trump. Ostacoli li incontra anche l’Iraq, paese confinante che con la Repubblica islamica ha guerreggiato ai tempi di Saddam e Khomeini ma che dopo l’invasione Usa del 2003 ha avviato un riavvicinamento significativo. Con gli sciiti al potere, l’Iran è diventato alleato politico e partner commerciale, nonostante l’ingombrante presenza Usa.

Per questo Washington, che conosce bene le difficoltà irachene visto che per buona parte le ha provocate, dallo scorso novembre ha esentato il governo di Baghdad dal rispetto delle sanzioni per continuare ad acquistare gas iraniano. E non solo: l’Iran vende al vicino 9 miliardi di dollari di beni l’anno e l’interscambio annuale si aggira sui 13 miliardi.

Ora – secondo fonti di Baghdad – il negoziato tra iracheni e americani è volto alla creazione di un meccanismo finanziario, Spv, special purpose vehicle come quello immaginato nei mesi scorsi dalla Ue, che permetta di evitare le sanzioni: l’Iraq importerà gas ed energia elettrica dal vicino pagandolo in dinari iracheni depositati in banche irachene e gestiti dalla Trade Bank of Iraq, nata dopo il 2003 per operare transazioni internazionali. La Repubblica islamica potrà usare quei dinari solo per l’acquisto di beni «umanitari»: non potrà ritirare quel denaro ma solo usarlo per pagare a Stati terzi medicine, strumentazioni mediche, cibo. Stavolta gas for food.

Mezzo mondo è al lavoro per rendere inefficaci, almeno parzialmente, le sanzioni di Trump. Ma a rendere apparentemente paradossale il lavorio iracheno per salvaguardare le vitali importazioni di energia è che Baghdad è tra i paesi più ricchi di petrolio al mondo (il quarto per riserve e il secondo per produzione) e sta risalendo la china: a maggio di quest’anno ha prodotto 4,7 milioni di barili al giorno di greggio, il doppio rispetto alla media del periodo 2002-2018.

Eppure l’energia manca, una mancanza cronica e disperante: da giugno sono riprese le manifestazioni di protesta a Bassora, tra le province più ricche di risorse energetiche del paese, geograficamente strategica (è qui l’unico porto iracheno sul Golfo Persico) e sede delle più grandi compagnie petrolifere nazionali e internazionali, Shell, Exxon, Eni.

Come accaduto lo scorso anno, i continui blackout combinati a disoccupazione e servizi quasi inesistenti hanno riacceso la fiamma: proteste di piazza e la polizia che disperde la folla definendo le manifestazioni illegali perché senza permesso, anche ricorrendo a proiettili, denunciano i manifestanti. Che ricordano quanto successo lo scorso anno quando il fuoco aperto dalle forze armate provocò 14 morti. Quasi mille gli arrestati.

Il venerdì è presto tornato a essere giorno di mobilitazione, nonostante le temperature bollenti, vicine ai 50 gradi. A Baghdad ad organizzarle, scrive al-Monitor, è un comitato formato da sadristi e comunisti, la strana lista che nel maggio 2018 vinse le elezioni. Bassora si mantiene più indipendente, con attivisti locali che già annunciano scioperi come quelli dello scorso anno che portarono a interrompere le attività delle compagnie petrolifere.

L’Iraq continua a non essere indipendente, nonostante navighi in un mare di greggio. È costretto a importare quasi il 40% dell’energia che consuma, 1.500 megawatt di elettricità e 28 milioni di metri cubi di gas al giorno solo dall’Iran.

E se è vero che sta cercando di avviare lo sfruttamento di bacini di gas ancora inesplorati (Siba a Bassora; Akkas nella provincia di Anbar, probabilmente il più grande del paese con 5.600 miliardi di metri cubi; Mansouriya al confine con l’Iran i cui lavori furono interrotti e mai ripresi dopo l’occupazione di un terzo del paese da parte dell’Isis), è vero anche che 16 miliardi di metri cubi di gas vengono persi ogni anno negli impianti petroliferi, bruciati nel processo di produzione del greggio e non recuperati.

I motivi di questa dipendenza sono tanti: le consistenti esportazioni, la quasi totale assenza di investimenti nel miglioramento e lo sviluppo del processo produttivo (che elimini, ad esempio, gli sprechi di cui sopra), la corruzione dilagante e la limitatissima ricostruzione delle reti di distribuzione di energia e acqua dopo la guerra del 2003.

Il governo si mostra ottimista: secondo il ministro dell’Energia, Luay al-Khatteb, la produzione nazionale sta aumentando (a maggio ha raggiunto i 17 gigawatt) e un accordo con la tedesca Siemens appena firmato dovrebbe ristrutturare e migliorare impianti esistenti e rete di distribuzione.

Ma c’è chi dà la colpa alle classi più povere: secondo alcuni analisti, le mancanze sono dovute ai sussidi per l’energia che Baghdad garantisce ai poveri, “spinti” così a consumare più di quel che servirebbe. Nemmeno una parola per il sistema politico più corrotto del mondo.