Sul ponte di Al Zaitoon sventola uno striscione. È dedicato ad Ahmed, 21 anni e una colpa: quella di essersi inginocchiato ad aiutare uno dei ragazzi feriti durante una manifestazione pacifica nelle piazze di Nassiriya. Qualche fiore, una candela, una bandiera irachena: sullo sfondo, l’Eufrate.

E SOTTO IL PONTE, tra le mura che corrono lungo il centro della città e i piloni che sorreggono la struttura, centinaia di ragazzi fanno street art. Dipingono bandiere, motti che inneggiano alla pace – «I have a dream», si legge su un muro – e poi cuori, volti di altri ragazzi che come loro hanno combattuto e hanno perso la vita per un ideale. Sono ragazzi e ragazze, adolescenti per lo più, disegnano insieme, ascoltano musica e cantano una versione rivista di «Bella ciao».

«È un canto di rivoluzione, di battaglia no?», ci dice R. quando gli chiediamo dove l’abbiano imparata.

Perché, come ci dice una ragazza, 22 anni e il sogno di diventare chirurga, qui in Iraq se scendi in piazza per protestare rischi la vita. Però è meglio morire che vivere così, sostiene. E allora contro cosa si manifesta? Per cosa vale la pena morire? Si manifesta contro la gestione dei soldi che provengono dal commercio del petrolio e non arrivano alla popolazione. Contro lo scarso stato di diritto e contro la corruzione. Disoccupazione e povertà regnano nel paese, i bambini nascono con malformazioni gravi che in Italia non vediamo da più di 50 anni.

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PROBLEMATICHE DOVUTE
alla malnutrizione in un paese che per risorse e materie prime potrebbe godere di piena autonomia e benessere. In uno stato che si definisce democratico, la polizia entra nei bar e confisca i telefoni con contenuti ritenuti pericolosi o sospetti. Per contenuto sospetto si intende un qualsiasi messaggio o una foto che dimostri la partecipazione del proprietario del telefono a una delle manifestazioni che giornalmente invadono le strade di Nassiriya.

Dal primo di ottobre la connessione internet è stata prima bloccata completamente e poi, dopo le prime proteste, limitata a tre o quattro ore al giorno ma con una banda lentissima che impedisce di condividere foto e video o rende l’operazione molto difficoltosa. Così si usa la navigazione privata, che consente di collegarsi senza mostrare da dove ci si connette. Ci mostrano come fare, scarichiamo un’applicazione e il gioco è fatto.

Dall’inizio di ottobre le scuole solo chiuse, come gli uffici pubblici. Tutti i giorni, o quasi, insegnanti e dottori ed «educated people», come dice uno dei medici che incontriamo a una di queste marce pacifiche, scendono in strada per manifestare contro la corruzione del governo. Tra di loro c’è Saadi Alasadi, tornato in patria per marciare con il suo popolo, lui che per anni ha vissuto e operato a Londra come medico.

CI ACCOMPAGNANO in piazza Habboubi, uno dei teatri principali dove si muovono i manifestanti: tra canti, balli, bandiere indossate o sventolate gioiosamente, vediamo anziani, bambini per mano ai genitori, donne con bancarelle che offrono limonata fresca a tutti quelli che passano di lì. Il clima generale è di festa, sebbene solo pochi giorni prima proprio tra quelle vie la polizia abbia attaccato i manifestanti.

L’età media dei manifestanti è tra 15 e 25 anni, ma anche ragazzini più piccoli hanno fatto sentire la loro voce e nelle piazze di Nassiriya. Non è raro vedere genitori con i bambini per mano. Marciano uniti, compatti, sventolando bandiere irachene che simboleggiano un’appartenenza a una terra che non sentono rappresentata dal governo. Ma in Italia vediamo arrivare quasi soltanto foto di copertoni bruciati e ragazzi dal volto coperto dalla kefiah che sembrano inneggiare alla violenza. Quelle immagini rappresentano solo la parte finale delle manifestazioni. Si accendono falò con vecchi copertoni per far salire nell’aria un fumo denso, nero e acre, che nasconda i ragazzi alla vista della polizia. Misura di protezione pressoché inutile dato il numero di morti per i proiettili delle forze speciali.

LE FORZE ANTISOMMOSSA e le milizie infiltrate tra di loro non hanno risparmiato neppure gli ospedali. A raccontarcelo è un medico, uno di quelli che partecipa alle manifestazioni. Il 9 novembre sono entrare in ospedale con i lacrimogeni: il bilancio dell’attacco è stato di nove feriti e tre intossicati. La luce continua a saltare in città e negli ospedali che nonostante tutto portano avanti la loro attività: non ci sono generatori, si opera muniti di torce.

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Ma il peggio è avvenuto nelle prime ore del 28 novembre, l’azione più violenta dall’inizio delle proteste contro cittadini disarmati usando qualsiasi arma a disposizione delle forze speciali. Diecimila uomini sono intervenuti sui manifestanti con la piena autorizzazione a sparare sulla folla per far terminare l’agitazione, a prescindere dal costo in vite umane. All’esercito iracheno, rimasto sino a quel momento neutrale, è stato intimato di lasciare la città. L’attacco ha avuto inizio alle 3.05 del mattino. Il primo ministro (poi dimissionario) Adil Abdul Mahdi avrebbe dato l’ordine di sparare sui manifestanti. Il bilancio dell’attacco è di 100 morti, 350 feriti gravi e molti dispersi. La maggioranza delle vittime ha tra i 15 e i 25 anni, ma il più giovane ne aveva appena 13.

L’APPELLO DEI CIVILI di Nassiriya è rivolto al governo italiano con cui, negli anni, è stato preservato un rapporto di amicizia e aiuto reciproco (è ancora forte il ricordo dei nostri militari presenti sul campo) e al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: chiedono aiuto per evitare ulteriori azioni ancora più violente. Dopo la caduta di Saddam c’era stata una parvenza di democratizzazione ma poi i conflitti fra sunniti e sciiti e l’avvento dell’Isis hanno precipitato il paese in uno stato di violenza e povertà. A oggi nessuno tra gli iracheni si sente rappresentato dal governo, l’idea che prevale è che sia l’Iran a muovere le fila dell’esecutivo e delle milizie armate dei partiti: si protesta, si combatte, per una terra cui si sente di appartenere ma che continua a essere violata. Eppure si rimane, si scende in piazza anche a costo della vita.

Ciò che domina, però, è un sentimento di speranza. «Questa volta riusciremo a cambiare le cose», ripetono i ragazzi che camminano per le strade e provano a dipingere un futuro dai colori diversi.