Terzo giorno di bombardamenti statunitensi sulla Siria. Ieri l’obiettivo dei jet Usa – sostenuti da quelli di Arabia saudita e Emirati arabi – sono state le nuove entrate economiche dello Stato Islamico, il petrolio. Bombe sono piovute su 12 raffinerie di greggio a est, che secondo il Pentagono garantivano alle casse islamiste due milioni di dollari al giorno con una produzione di 300-500 barili giornalieri. Nei raid sono morti 14 miliziani dell’Isis a Deir al-Zour e 5 civili a Hassakeh. Fondamentale il sostegno dei due paesi arabi: ai sei aerei militari Usa si sono uniti i dieci di Riyadh e Abu Dhabi, che hanno sganciato l’80% delle bombe totali.

Un asse che si rafforza, quello del Golfo, sostenuto dall’alleato Usa. Resta alla finestra l’Iran: ieri all’Onu il presidente Rowhani ha criticato i raid in Siria e in Iraq e fatto appello per un intervento locale e non globale. «Visto che i paesi della regione conoscono meglio questo dolore, possono formare una coalizione migliore», ha detto Rowhani all’Assemblea Generale. Dietro, la convinzione iraniana che l’operazione messa in piedi da Washington sia parte di una più vasta manovra per indebolire l’asse sciita guidato da Teheran.

Una convinzione che Rowhani non nasconde: paesi arabi e Occidente hanno piantato i semi dell’estremismo con «errori strategici» che hanno permesso la crescita dell’Isis, ha detto il presidente iraniano aggiungendo che è venuto il momento «per tutti quelli che hanno giocato un ruolo finanziando e sostenendo questi gruppi di ammettere tali errori» e chiedere scusa.

Nessuna scusa, ma raid che oggi colpiscono le ricchezze in mano all’Isis. Sarebbero sei i giacimenti petroliferi siriani e quattro quelli iracheni oggi controllati da al-Baghdadi, per un totale di cinque milioni di dollari al giorno. Una cifra considerevole: seppure nelle prime settimane di avanzata, numerosi analisti ritenevano improbabile che lo Stato Islamico potesse trovare acquirenti per il greggio strappato a Damasco e Baghdad, in poco tempo i miliziani jihadisti hanno aperto le porte giuste per la vendita all’estero. Mercanti locali e contrabbandieri portano fuori il greggio, attraverso il Kurdistan iracheno o dal permeabile confine turco.

«Stiamo ancora verificando il risultato dell’attacco sulle raffinerie, ma le indicazioni iniziali dicono che i raid hanno avuto successo», ha scritto il Commando Centrale statunitense in un comunicato, confermando quello che era il principale timore del presidente Obama prima dell’allargamento dell’operazione alla Siria: la mancanza di una presenza sul terreno o di combattenti alleati (come in Iraq sono i peshmerga) non permette un controllo capillare né la raccolta immediata di informazioni. Una mancanza che i gruppi di opposizione moderate sostenuti dalla Casa Bianca non possono garantire perché ormai assenti. Un’eventuale collaborazione con Damasco coprirebbe il gap, ma Obama continua a rifiutare ogni proposta di apertura.

L’esercito del presidente Assad, che non molla e insiste di aver ricevuto telefonate ufficiose dai vertici politici statunitensi che annunciavano i bombardamenti, continua a muoversi in autonomia. Ieri ha riassunto il controllo della città di Adra, a nord est di Damasco, strappandola al Fronte al-Nusra che occupava da dicembre la comunità, strategica perché sede di una delle più grandi zone industriali della Siria. Grazie al sostegno indispensabile del movimento libanese Hezbollah, il governo siriano sta radicando la presenza nel corridoio tra la capitale e la costa mediterranea, spingendone fuori i gruppi di opposizione, moderati e islamisti.

Nelle stesse ore i miliziani curdi respingevano un assalto islamista alla città di Kobane, circondata da giorni dall’Isis dopo l’occupazione di una sessantina di villaggi curdi al confine con la Turchia che hanno provocato la fuga di 200mila persone. E dopo l’uccisione del turista francese Gourdel, dall’Iraq giunge notizia di una nuova barbarie compiuta dai miliziani dell’Isis: l’attivista per i diritti umani Sameera Salih Ali-al-Nuaimy, avvocatessa nota per il suo impegno a fianco delle donne, rapita nella sua casa una settimana fa e torturata, è stata giustiziata in pubblico lunedì a Mosul dopo la condanna per apostasia emessa da una corte Isis. Alla famiglia è stato impedito di celebrare il suo funerale. Un nome che si aggiunge ai 8.493 civili iracheni uccisi dall’inizio dell’anno, la metà dei quali morti dal 9 giugno, inizio dell’avanzata islamista, alla fine di agosto.