L’Iran ha diritto al nucleare, le sanzioni saranno cancellate e si apre una nuova pagina nelle relazioni tra Washington e Tehran. I 18 giorni di maratona negoziale di Vienna e la data del 14 luglio 2015 resteranno scolpiti nella storia come uno dei rari tentativi di stabilire un equilibrio in Medio oriente alternativo all’asse tra Stati uniti e Arabia Saudita (che ha subito promesso nuovi attacchi in Yemen contro i miliziani sciiti Houthi).

Non ci sono vincitori né vinti della no stop diplomatica all’Hotel Palais Coburg di Vienna. I discorsi di ieri del presidente Usa Barack Obama e del suo omologo iraniano Hassan Rohani, a distanza di pochi istanti, sembravano delineare due accordi quasi opposti nei contenuti, proprio per placare gli scetticismi di repubblicani statunitensi e pasdaran iraniani. E cavilli sui termini usati nelle versioni in farsi, in inglese e in francese dell’accordo non mancheranno neppure questa volta, come è stato con le accese discussioni seguenti all’intesa preliminare di Losanna del due aprile scorso, di suscitare polemiche nei prossimi mesi quando dalle parole si dovrà passare finalmente ai fatti.

Per ora, dopo 23 mesi di negoziati, i due presidenti hanno ottenuto il più importante traguardo della loro carriera politica. Per Obama, l’intesa non si basa sulla fiducia (chiaro messaggio a Tel Aviv) ma sulla «verifica» del rispetto dei patti. Ma il presidente democratico è andato oltre, evidenziando la vera novità di queste ore. Obama è pronto a porre il suo veto al Congresso se i repubblicani dovessero opporsi all’intesa di Vienna. Israele vive invece queste ore come un grande sgarro di Washington. Il premier Benjamin Netayahu ha assicurato che non rispetterà l’accordo, ha parlato di «nuova superpotenza nucleare» e di «resa all’asse del male».

Tehran però può finalmente celebrare la fine delle sanzioni. Dal giorno in cui l’intesa entrerà in vigore (dopo il voto di Congresso Usa, Majlis a Tehran e Consiglio di sicurezza Onu), tutte le misure multilaterali contro l’Iran saranno eliminate (non sospese), incluse quelle finanziarie, bancarie, sui trasporti, raffinerie, metalli preziosi e accesso alla tecnologia.

Ma a placare i timori occidentali ci ha pensato il segretario di Stato John Kerry, uno dei più fervidi difensori dell’intesa. «Per 15 anni l’Iran non produrrà o acquisirà uranio arricchito o plutonio», ha assicurato.

E le verifiche a sorpresa, anche dei siti militari (a meno di un’opposizione iraniana valutata da una commissione ad hoc) dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea) andranno avanti permanentemente. Non è chiaro però se gli ispettori potranno direttamente incontrare scienziati e ingegneri iraniani che, secondo i falchi Usa, sono impegnati in attività di arricchimento non dichiarate.

Obama ha poi sottolineato come un accordo sia comunque preferibile al rischio che Tehran si doti di un’arma nucleare: argomento usato spesso per convincere i repubblicani, a cui si è accodata lady Pesc, Federica Mogherini, che si è ritagliata in extremis e a fatica (dopo anni di lavoro diplomatico della baronessa Ashton) un ruolo in questi negoziati, e che ha parlato di un «buon accordo».

A ritardare di un giorno l’intesa ha pesato la questione della fine dell’embargo su armi e missili balistici, imposto all’Iran nel 2006. Zarif e Kerry si sono accordati sull’estensione per otto anni delle sanzioni sui missili e per cinque sulla vendita di armi (i tempi potrebbero ridursi se l’Aiea dovesse certificare che il programma nucleare iraniano è interamente pacifico). Kerry ha anche insistito sul bando pluriennale su costruzione di testate nucleari e test nucleari che potrebbero contribuire alla fabbricazione di un’arma.

Ma Tehran sembra davvero aver fatto un salto di qualità nelle sue relazioni internazionali dopo Vienna. All’Iran non è stata fatta l’«elemosina», ha giustamente ribadito Rohani. L’accordo di Vienna sul nucleare iraniano chiarisce soprattutto che il modello saudita wahabita ha fallito. L’appoggio indiretto Usa al terrorismo internazionale che ha fatto solo gli interessi sauditi e israeliani potrebbe nel tempo essere sostituito da una dinamica più ragionata, che vedrà diminuire gli interventi armati in Medio oriente e renderà l’Iran protagonista (lo è già in Iraq, Siria e Afghanistan).

Questa intesa sfida poi l’iranofobia di repubblicani e israeliani e dimostra ancora una volta che l’Iran è l’unico paese davvero credibile nella lotta contro lo Stato islamico e il vero jihadismo (non la resistenza di Hamas, Hezbollah, milizie di Misurata che Egitto, sauditi, israeliani amano mettere nello stesso calderone di Daesh).

L’accordo dimostra anche che le sanzioni internazionali non sono state uno strumento efficace nel fermare le aspirazioni nucleari civili iraniane perché non hanno intaccato minimamente gli interessi dei ricchi bazarini, delle fondazioni e dei pasdaran affamando solo poveri e classe media locale.

Questo però non è detto che si trasformi in una vittoria per i moderati di Hassan Rohani alle prossime elezioni parlamentari e dell’Assemblea degli Esperti, previste per il prossimo anno: spesso, dopo la Rivoluzione islamica, le concessioni in politica estera in Iran hanno aperto la strada a restrizioni in politica interna.