«No, non voterò. Perché dovrei farlo?». Siamo a due passi da uno degli ingressi laterali del labirintico bazar di Tehran, nei pressi della fermata Khayyam della metropolitana.

È poco prima di pranzo. Le strade sono gremite di gente diretta al mercato. Qui, in una piccola sala da tè nascosta sotto un portico di mattoni, regnano invece calma e tranquillità.

QUALCHE VECCHIO CHIACCHIERA con il vicino. I più giovani tengono la testa china sul telefonino. Ogni tanto alzano distrattamente lo sguardo sul televisore. Da giorni i programmi sono monopolizzati dal grande evento di domani, 19 maggio: le elezioni presidenziali.

La contesa è tra il presidente uscente, il centrista-riformatore Hassan Rouhani, che punta a capitalizzare l’accordo sul nucleare dell’estate 2015 e la conseguente “apertura” all’esterno di questo paese da 80 milioni di abitanti, e Ebrahim Raisi.

Fino a qualche settimana fa il suo nome suonava sconosciuto alla maggior parte dei 56 milioni di potenziali elettori, pur vantando un curriculum di rilievo.

Pupillo del leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, già procuratore capo, responsabile della Corte speciale che vigila sull’operato dei clerici, membro dell’Assemblea degli esperti (l’organo che elegge il leader supremo), co-responsabile negli anni Ottanta dell’uccisione di migliaia di dissidenti, dal marzo 2016 Raisi è il custode del più importante santuario iraniano, quello dell’imam Reza a Mashad, e responsabile di Astan Qods Razavi. Sulla carta una fondazione religiosa caritatevole, nella realtà un impero da 15-20 miliardi di dollari, con interessi in tutti i settori economici.

HASSAN ROUHANI e Ebrahim Raisi hanno deciso di concludere proprio a Mashad la loro campagna elettorale, ieri, prima delle 24 ore di silenzio pre-voto. Si sono sfidati a colpi di piazze gremite, promesse e slogan retorici.

Il presidente Rouhani insiste sulla lettura binaria, sull’alternativa assoluta: «Mano nella mano abbiamo distrutto muri e costruito ponti. Non permetteremo loro di distruggere ponti e costruire muri», ha detto a Isfahan domenica scorsa e ribadito ieri a Mashad. «Non permetteremo un ritorno al passato».

Insomma, o lui o il ritorno al potere dei “principialisti” più ortodossi, la componente dell’establishment – dalle Guardie della rivoluzione ai falchi conservatori – che pensa di proteggere i principi della rivoluzione del ’79, e i propri interessi, evitando il più possibile le “contaminazioni” esterne.

C’È PERÒ CHI DIFFIDA delle letture binarie. «Per me non c’è grande differenza tra i due», sostiene Mohammed (nome di fantasia, nda), poco meno di trent’anni, mentre aspira dal bocchino della pipa ad acqua.

«Non voterò, perché il governo non mi piace. Non mi piace che cento mullah decidano le sorti di milioni di persone. Non mi piace che ci privino di ogni libertà. Nessuno dei candidati è disposto a darmi la libertà che voglio, neanche Rouhani, per quanto dica. Non voterò».

Il suo è un punto di vista particolare: dottorando di ricerca («Studio Human Resource Management»), ha trascorso due anni a Manchester, in Inghilterra, «dove ho sperimentato la libertà». Eppure l’astensione potrebbe essere la scelta di molti.

«PER ROUHANI, il vero pericolo sono i tanti indecisi. E i delusi». A parlare è l’avvocatessa Marzieh Mohebbi. Ci accoglie nel suo studio a Mashad, nord-est del paese, ad una decina di ore di treno da Tehran.

Sull’ampia scrivania decine di cartelline ordinate in modo maniacale. Sono i casi giudiziari delle donne detenute – «ingiustamente» – e seguite dalle 200 avvocatesse della Ong che dirige, Soura. «La gente è disillusa, stufa della politica», prosegue Mohebbi. Anche di Rouhani.

IL PRESIDENTE HA PUNTATO tutto sull’accordo nucleare. Ma i benefici promessi tardano a farsi vedere: l’economia cresce intorno al 5% annuo, la produzione di petrolio è salita a 2,5 milioni di barili al giorno, l’inflazione è scesa dal 35-40% del periodo del presidente Ahmadinejad al 10% circa attuale.

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Un sostenitore del sindaco di Teheran Qalibaf, uscito dalla competizione a favore del conservatore Raisi/LaPresse

MA IL COSTO DELLA VITA SALE. Come la disoccupazione, al 13%, con cifre ancora più alte per le donne. E per i giovani, il 65% della popolazione.

Per Marzieh Mohebbi, Rouhani va sostenuto comunque: «Sono elezioni cruciali. Dobbiamo difendere una fase iniziata quattro anni fa». La direttrice di Soura imputa i successi mancati all’amministrazione precedente e al contesto internazionale: «C’è stato un lungo malgoverno, durato otto anni, durante i quali il paese è stato portato quasi alla rovina, ma ci sono responsabilità anche da parte dei paesi stranieri, che hanno applicato sanzioni ingiuste». Per lei, il benessere economico «viene con la pace mondiale», e il più importante contributo di Rouhani è stato quello di «promuovere l’idea che la diplomazia sia più utile del conflitto».

NON NASCONDE che lo sosterrà. Ma riconosce e teme la forza dello sfidante Raisi, che i sondaggi danno in crescita.

«Qui a Mashad il condizionamento dell’establishment ultraconservatore è molto forte», spiega Nasser Amoli, attivista politico e volto noto del campo riformista. «C’è il santuario», diretto da Raisi, «ci sono interessi economici fortissimi. Le elezioni municipali (contestuali alle presidenziali, nda) sono controllate dal giro di Ahmadinejad. E poi c’è l’influenza dell’imam della città», l’ayatollah Ahmad Alamolhoda, suocero di Raisi e stretto consigliere di Khomeini.

«Un contesto dove il pregiudizio, l’ignoranza, la chiusura prevalgono sulla razionalità e il pragmatismo. Per noi riformisti è una sorta di prigione». Amoli si batte per il secondo mandato di Rouhani: «Quattro anni fa lo abbiamo sostenuto per normalizzare lo stato delle cose, per recuperare gli anni perduti con Ahmadinejad. Rouhani l’ha fatto. Ora ci aspettiamo che continui il suo programma riformista».

Anche la segretaria generale della “Nuova società delle intellettuali musulmane”, Tahereh Rahimi, ritiene che Rouhani sia il candidato migliore.

«Negli ultimi decenni l’Iran è cambiato molto, è progredito, si è industrializzato, ma rimane un paese fortemente religioso; c’è bisogno di qualcuno che conosca le due facce, il mondo esterno e la nostra tradizione. Rouhani può coniugarle».

È l’unico che può garantire «nuove opportunità e diritti per le donne – sostiene Rahimi – affinché ottengano le pari opportunità anche dal punto di vista normativo, oltre che sociale».

Appare più scettica Antonia Shoraka, critica cinematografica e responsabile del dipartimento di Italianistica della Islamic Azad University di Tehran. La incontro alla 30esima Fiera internazionale del libro che si è conclusa il 13 maggio nella capitale. «Rouhani si è concentrato sulla politica internazionale, dove ha ottenuto dei successi, ma in chiave interna non ha fatto molto».

QUALCUNO, QUI IN IRAN, ritiene che abbia dovuto accettare uno “scambio” con il leader supremo e i falchi: via libera all’accordo nucleare in cambio della rinuncia alle riforme sui diritti civili e sociali.

Quel che è certo è che sui diritti, anche l’amministrazione Rouhani ha latitato. «Per la pubblicazione di libri e film, poco è cambiato. Quanto ai diritti delle donne, per ora solo chiacchiere. Nulla di concreto», sostiene Shoraka.

Crede che Rouhani verrà rieletto. Ma non pare entusiasta. «Mi piacerebbe poter diverse diversamente, ma ci accontentiamo del minimo, ormai».