Ci sono pochi libri di cui ci s’innamora durante la vita. L’infatuazione può durare un tempo variabile: qualche giorno, qualche settimana, mesi o addirittura anni. Poco importa, ciò che conta è quel che si prova tenendo in mano le pagine della storia. Empatia è proprio lo stato d’animo trasmesso da L’autunno è l’ultima stagione dell’anno (traduzione di Parisa Nazari, edizioni Ponte 33, pp. 208, euro 15), romanzo d’esordio dell’iraniana Nasim Marashi.
Dalla storia di tre ragazze, Leila, Roja e Shabane – che si affacciano all’età adulta confrontandosi con le difficoltà lavorative e i dilemmi familiari -, traspare il vissuto dell’autrice, poco più che trentenne, laurea in ingegneria e di professione giornalista (come una del trio). Preoccupazioni per il presente e per il futuro emergono da questo romanzo costruito attraverso compenetrazioni tra vita reale e fiction. Marashi non eccede nel sensazionalismo tipico di molti giovani scrittori, né forza la mano con una finta sciatteria, anch’essa sempre più diffusa tra i romanzieri al debutto: il suo è un esordio morbido ma efficace.

Lei si è laureata in ingegneria per passare poi al giornalismo. Perché?
I miei genitori erano convinti che gli studi d’arte fossero solo per allievi non in grado di superare l’esame di matematica. Da me – che ero un’ottima studentessa – si aspettavano molto; così non mi hanno permesso di dedicarmi all’arte. Mi sono laureata in ingegneria meccanica – materia che odio – ma ho iniziato a fare la giornalista quando ero all’università.

Nel libro parla di una giovane giornalista che nel suo lavoro non accetta i compromessi. Cosa vuol dire fare questo mestiere a Tehran?
Come si può immaginare, in Iran, i reporter hanno molti limiti: camminano lungo una strada stretta e tortuosa, combattuti tra ciò che vogliono fare e ciò che è permesso loro. Se ti occupi di politica sei sempre in pericolo. Nel giornalismo culturale e nelle altre categorie potresti essere più al sicuro, ma i redattori sono responsabili delle loro riviste e devono prestare attenzione a quella sottile linea rossa: imparano presto cosa sia il «compromesso». Per questo, alcuni preferiscono andare via e dedicarsi ad altri mestieri.

Quindi, la censura esiste o non esiste?
Buona domanda. Alcuni scrittori iraniani vogliono ingigantirla, altri ignorarla. In questo modo, all’estero non si percepisce la realtà. La verità è che la censura esiste e ha un’influenza importante sugli scrittori. Il Ministero della cultura e la guida islamica può rifiutare un intero libro o censurarne la parte principale, lasciando lo scrittore nell’impasse di dover scegliere se cambiare il testo o rinunciare alla pubblicazione. La cosa peggiore è che, non esistendo una regola scritta, il funzionario addetto al controllo può agire seguendo i propri gusti, che cambiano con l’alternanza dei governi. Dunque, la censura esiste. Ma non nella misura in cui ne parla l’Occidente. Non puoi affrontare il sesso, ma ci sono molti altri argomenti di cui scrivere. Nel mio libro, nonostante parlassi della chiusura forzata di un giornale, non avuto alcun problema. Gli autori iraniani conoscono la linea di confine per esperienza: ciascuno ha il suo modo per aggirarla. Stiamo facendo progressi, molti libri che in passato erano vietati sono stati «liberati».

Di recente è stata ospite del Tehran Book Fair. Com’è cambiato il panorama della letteratura contemporanea in Iran?
È sicuramente importante parlare dell’incremento di letteratura femminile, anche se non mi piace categorizzarla come un genere a sé stante. Avevamo già alcune grandi scrittrici, ma a oggi sono uguali agli uomini per numero e qualità. E sono felice di scoprire che le donne riescano finalmente a scrivere senza più pensare al loro genere.

Il suo esordio nella letteratura iraniana contemporanea s’inserisce nella categoria delle nuove promesse. Ci racconta la genesi del romanzo?
Quando ho iniziato a scriverlo non mi ero mai occupata di narrativa; ero una giornalista. Ma in quel periodo tutte le riviste per cui lavoravo venivano chiuse dal governo. Avevo provato ad andare in Francia e l’ambasciata francese aveva respinto la mia domanda di visto. Dovevo fare qualcosa per riprendere in mano la mia vita. Così ho iniziato a scrivere. Volevo parlare dei problemi della mia generazione, «registrare» quei giorni. Quando ho finito il libro, l’ho mostrato ad alcune persone fidate, che ne sono rimaste entusiaste; poi l’ho proposto all’editore. Non mi aspettavo di raggiungere diciotto riedizioni in soli due anni.

«L’autunno è l’ultima stagione dell’anno» è quasi un romanzo autobiografico…
Non esattamente. Non sono nessuna dei tre personaggi e allo stesso tempo sono tutte e tre: una parte di loro mi assomiglia. L’episodio del visto respinto, che effettivamente compare anche nel libro, è stato solo uno degli spunti presi dalla mia vita vissuta. Così come l’aneddoto della chiusura del giornale in cui lavora una delle protagoniste. Mi sono divertita a fare un puzzle tra me, i miei amici e le mie immaginazioni: volevo che i personaggi fossero vividi e credibili.

Ha già in progetto un nuovo libro?
Ho finito il mio ultimo romanzo sei mesi fa e ho ricevuto la licenza dal Ministero della cultura e della guida islamica. Nel frattempo ho iniziato a lavorare a un libro-documentario che racconta l’esperienza dei rifugiati afgani nel mondo. Ho raccolto il materiale in Iran, in Germania e in Francia. Partirò presto per l’Afghanistan e poi andrò in Turchia, Italia e Svezia. Ultima tappa: Canada.