Una cosa è certa: il premier israeliano Benjamin Netanyahu d’ora in poi dovrà fare i conti con una leadership iraniana pragmatica, aperta all’occidente e più efficace di quanto si potesse immaginare. Per arrivare a un’intesa definitiva sul nucleare c’è ancora molto da fare, ma Tehran ha aggiunto un tassello al suo diritto di avere un programma nucleare civile, già sancito nel novembre 2013: la rimozione delle sanzioni internazionali. Questo ha provocato la dura, e consueta reazione del governo israeliano, che ha respinto l’intesa e chiesto il «riconoscimento chiaro e non ambiguo all’esistenza dello Stato di Israele», come precondizione per l’attuazione dell’accordo. Una pretesa che esula dai temi dell’intesa, una provocazione che ancora una volta conferma quanto Israele usi la stigmatizzazione delle intenzioni nucleari iraniane che, come si è visto a Losanna, nulla hanno a che vedere con l’atomica, per non modificare di una virgola lo status quo.
Invece le cose cambieranno con la fine graduale delle sanzioni. E Tel Aviv dovrà prenderne atto. Certo non è ancora chiaro con quali tempistiche le sanzioni verranno cancellate. I negoziatori iraniani continuano a garantire che questo avverrà contestualmente alla conversione delle centrali nucleari, eccetto Natanz, in centri di ricerca e allo spegnimento delle centrifughe che non dovranno superare le 5000.

«Abbiamo consegnato un cavallo da corsa e ci hanno restituito le briglie», hanno ironizzato i conservatori iraniani per sottolineare le tante concessioni che ha dovuto fare Tehran per arrivare all’accordo di Losanna. L’intesa ha subito fatto impennare la popolarità in Iran di alcune figure centrali per la riuscita del negoziato, tra questi il ministro degli Esteri Javad Zarif, accolto a Tehran come un eroe da ragazzi e ragazze in visibilio. Eppure la folla festante della capitale iraniana inneggiava nei suoi slogan anche a Mousavi, leader del movimento riformista agli arresti dal 2011. Tuttavia il raggiungimento dell’intesa sul nucleare non è detto che dia nuovo respiro alla società civile iraniana. Gli ultra conservatori dell’ex presidente Ahmadinejad, con tutte le concessioni che si trovano a dover subire loro malgrado accettando i restrittivi termini dell’intesa, daranno filo da torcere come non mai ai tecnocrati.

Ma la tabella di marcia del presidente Rohani sembra serratissima: apertura al mondo, attrazione di capitali, impennata del turismo, riforma dei sussidi e liberalizzazioni sono le priorità degli ayatollah. E molte compagnie straniere hanno già risposto al richiamo iraniano. A poche ora dall’annuncio dell’accordo, ai giornalisti Rohani ha assicurato che Tehran rispetterà l’intesa e non chinerà la testa all’Occidente ma «coopererà con il mondo». Ma di eventi inediti per la Repubblica islamica nelle ultime ore ce ne sono stati tanti. La tv pubblica iraniana ha mostrato per la prima volta un discorso del presidente Usa. Non solo, la conferenza stampa di Mogherini è stata mandata in diretta, nonostante il politico non avesse il velo. Piccole variazioni al protocollo che però per il pubblico iraniano suonano come il segno di quella perestroika che sta attraversando il regime dopo l’elezione di Rohani e in seguito alla malattia della guida suprema, Ali Khamenei, che però ha continuato a lavorare dietro le quinte sostenendo gli sforzi negoziali di Zarif e Salehi.

Obama ha promesso «verifiche senza precedenti» in Iran per i prossimi dieci anni, contraddicendo quasi la fiducia verso Tehran a cui aveva fatto riferimento l’Alto rappresentante per la politica Estera dell’Ue. Il presidente Usa deve agire su due fronti: il primo è interno, il secondo coinvolge sauditi ed Emirati. I Repubblicani, acerrimi oppositori dell’intesa, si sono detti «allarmati» dall’accordo. Saranno i primi a dare battaglia perché la fine delle sanzioni passi attraverso il Congresso e non l’Onu. Su questo spunta il giallo delle traduzioni divergenti in farsi e in inglese nei documenti letti alla stampa da Mogherini e Zarif per annunciare l’intesa.

Ma ancora più difficile sarà convincere i sauditi. E Obama lo sa bene. Prima che si arrivasse all’intesa, il presidente Usa ha fatto un passo che si attendeva da mesi per calmare le acque dei suoi alleati sunniti: ha dato il via libera alla fine del congelamento degli aiuti militari all’Egitto, che andava avanti dal 3 luglio 2013, giorno del golpe militare contro i Fratelli musulmani. Le motivazioni sono strategiche e riguardano gli interessi americani in Medio oriente oltre alla gravissima crisi che colpisce la penisola del Sinai, dove solo nelle ultime ore sono state uccise, negli scontri tra jihadisti e polizia, almeno 40 persone sulla strada tra al-Arish e Rafah. Ma forse alle spiegazioni ufficiali c’è da aggiungere una forma di riparazione per il torto subito dai sauditi in seguito al riavvicinamento con l’Iran.

Eppure Tehran continua a essere centrale per tutte le principali crisi che colpiscono il Medio oriente. Soltanto ieri le milizie sciite hanno sottratto Tikrit dal controllo dello Stato islamico (Is). Dallo scorso giugno Is era entrato nella città irachena: una delle sue principali conquiste. Ancora una volta Tehran è essenziale per contenere l’avanzata dei jihadisti: forse Usa e Ue se ne stanno accorgendo.