Sono parole già sentite, che tradiscono l’impotenza dell’Unione europea di fronte all’arroganza di alcuni Stati. Si sentono praticamente ogni volta che nel Mediterraneo si verifica una tragedia come quella che venerdì scorso è costata la vita a 117 migranti, oppure quando ci sarebbe da intervenire a favore della nave di una ong che, come la Sea Watch in questi giorni, ha fatto il suo dovere evitando che altre decine di disperati perdessero la vita nel Mediterraneo e adesso attende pazientemente che qualcuno in Europa si decida ad aprirle un porto.

Le parole che arrivano da Bruxelles sono sempre le stesse: «La Commissione europea ha seguito gli eventi da vicino ma non siamo stati coinvolti in alcun coordinamento. Alcuni migranti, secondo quanto capiamo, sono stati salvati e sbarcheranno in Libia», ha ripetuto anche ieri una portavoce della commissione ricordando come Bruxelles nulla possa sulle decisioni degli Stati.

Una verità che però è parziale. Perché se è vero che non spetta all’Ue coordinare i soccorsi e che quella di aprire o meno un porto è una decisione che riguarda i singoli Stati, è anche vero che da troppo tempo l’Europa mostra due volti, da una parte riconoscendo alla Libia la competenza su una zona Sar (Search and rescue) che in realtà non esiste e finanziando l’addestramento della sua Guardia costiera (con i risultati che si sono visti anche in questi giorni) e dall’altra rifiutandosi allo stesso tempo di riconoscere quello nordafricano come Paese sicuro nel quale riportare i migranti. Arrivando per questo anche a scontrarsi con Matteo Salvini, come è successo nel luglio dello scorso anno quando il ministro degli Interni italiano pretendeva che l’Ue dichiarasse la Libia porto sicuro. «Nessuna operazione europea e nessuna nave europea effettua sbarchi in Libia, perché non lo consideriamo un Paese sicuro», disse in quell’occasione la portavoce della Commissione ricordando per di più come restituire i migranti a Tripoli sia considerata un’operazione di respingimento vietata dal diritto internazionale.

Nonostante questo continuano i finanziamenti alla Libia, sia europei che italiani. 338 milioni di euro dal 2014 a oggi provenienti da fondi europei, ai quali vanno aggiunti i 9,3 milioni di euro previsti da una gara indetta a dicembre dello scorso anno dal ministero degli Interni «per la fornitura – ha spiegato il deputato di +Europa Riccardo Magi che su questo ha presentato un’interrogazione parlamentare – di 20 battelli destinati alla polizia libica nell’ambito di un progetto cofinanziato dall’Unione europea nel quadro del Trust fund for Africa». Tutto questo senza dimenticare i 14 mezzi, tra cui due unità navali della Guardia di Finanza, di 27 metri ciascuna, classe Corrubia, previste da un decreto varato il 7 luglio scorso dal consiglio dei ministri e nel quale erano inserite anche attività di addestramento e formazione degli equipaggi libici (mezzi che però ancora non sarebbero stati consegnati). Uomini, soldi e mezzi per un Paese che non solo l’Ue, ma anche il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha riconosciuto essere un posto non sicuro per i migranti.

Tutto per l’incapacità europea di trovare una soluzione comune alla gestione degli sbarchi. Pur di mettere fine al tragica ricerca di un Paese disposto ad accogliere quanti vengono tratti in salvo, Bruxelles ha messo a punto un piano che prevede la partecipazione di alcuni Paesi «volenterosi» tra i quali – dietro coordinamento della Commissione Ue – dividere i migranti nella speranza che prima o poi si riesca ad arrivare a un accordo sulla riforma di Dublino. Il commissario Ue all’immigrazione Dimitris Avramopoulos ne ha parlato il 14 gennaio scorso a Roma al premier Conte e allo stesso Salvini , senza però di fatto ottenere nulla.

E resta infine sempre in sospeso il futuro della missione europea Sophia. Il 22 dicembre il Consiglio europeo ne ha prorogato l’attività fino al 31 marzo, facendo così slittare l’ultimatum dell’Italia che minaccia di tirarsi fuori se non cambiano le regole per cui i migranti tratti in salvo vengono sbarcati nei suoi porti. Anche in questo caso, però, almeno finora Bruxelles non è stata capace di trovare una soluzione.