Sicuramente Liolà è una figura eccentrica nel teatro di Pirandello. La sua vitalità, che si esprime oltre che nel buon carattere e nella simpatia anche nella fertilità generativa, è molto lontana dalle ombre tormentate quando non peccaminose degli altri grandi personaggi dello scrittore siciliano. Anche se pure in quella campagna autunnale che si fa poi tempo della vendemmia, le complicazioni genetiche e familiari hanno degli aspetti complessi, che oggi sarebbero pienamente inseribili nei dibattiti sulla maternità biologica e le sue complicanze. Al confronto, appaiono perfino «antiquate» le querelle sul possesso della roba in senso verghiano, dato che il capitalismo continua a cambiare volti e imbrogli, pur di continuare il suo dominio.

L’idea vincente di Arturo Cirillo nel mettere ora in scena un nuovo Liolà (andato in scena al San Ferdinando, per il Teatro nazionale napoletano) è sicuramente quella di metterlo ampiamente in musica (già nell’originale il protagonista ama esibire la propria vitalità con qualche canzone). Paolo Coletta quindi ha preparato una vera partitura, originale ma con molti echi volutamente riconoscibili, che trasforma spesso il racconto in un vero musical. Forse anche per il ricordo di uno storico Liolà/Modugno, il personaggio pirandelliano assume l’ombra di un Rinaldo in campo medico ostetrico, che forse non dispiacerebbe alla ministra Lorenzin che si spende per la fertilità. Il personaggio resta comunque il polo positivo della drammaturgia, seminatore di figli sparsi e unica presenza maschile (favorita anche dalla bravura ormai solidissima di Massimiliano Gallo) assieme al «cattivo», lo zio Simone, interpretato dallo stesso regista Arturo Cirillo.

Questi pensa solo all’accumulazione più primitiva, che dalla roba, fatta di terre messe insieme e coltivate a mandorle e a vigne, culmina nella proprietà di figli che non arrivano. E sarà beffato da ben due giovani madri, pronte a prendere Liolà «in affitto», rendendolo due volte padre per l’anagrafe. Attorno ai due contendenti, su un prato fiorito a metà tra i Nelken di Pina Bausch e il cimitero pasoliniano dell’Orgia di Massimo Castri, la scena è popolata di molte donne: contadine, parenti, padrone ma tutte egualmente infatuate del vitale Liolà.

A lui tutte hanno da rinfacciare, ma per perdonarlo subito dopo. Non è tanto la terra ideale dei buoni sentimenti, quanto il paese dei balocchi viventi. I figli sono una ricchezza, dicevano i nonni. Qui la rapida moltiplicazione demografica preoccuperebbe oggi non tanto la morale, quanto i servizi sociali, anticipati da una nonna, madre di Liolà, che per fortuna neanche si vede in scena.