E’ un corteo di persone ininterrotto quello che scende lungo Bermondsey Street, a Londra, per raggiungere lo slargo dove si affaccia la White Cube Gallery. Un corteo sgranato di pellegrini che si dispongono a partecipare al rito imbastito per loro da quella strana stilita del terzo millennio che risponde al nome di Tracey Emin. «L’arte è per la gente», è sempre stato il suo credo. E la gente puntuale risponde venendo all’appuntamento. Era da cinque anni che Emin non esponeva a Londra, la città che l’ha consacrata quando, nel 1997, prese parte alla mostra più mediatica di fine millennio: Sensation, alla Royal Accademy.
Allora espose una tenda, all’interno della quale aveva scritto tutti i nomi delle persone con cui aveva dormito nella sua vita. C’era la nonna, c’erano gli amanti, il fratello, le amiche. E c’erano anche i due bambini che non ebbe mai, in quanto aveva scelto di abortire. Quell’opera, Everyone I Have Ever Slept With, andò distrutta in un incendio dei magazzini di Charles Saatchi che l’aveva acquisita. Tracey Emin si è rifiutata sempre di replicarla, ma il contenuto evocato da quella tenda continua a essere il tema, o meglio l’ossessione, della sua avventura artistica.
Simile al Damien Hirst di Venezia
Ad esempio, la vicenda di quei due aborti, che risalgono agli anni novanta, è ancora nel cuore di questa mostra che occupa i seimila metri quadri della galleria londinese. A Fortnight of Tears (fino al 7 aprile) è il titolo che annuncia lo svolgimento: due settimane di lacrime. È una mostra che si svolge in tre atti: l’insonnia, la morte dalla madre e, appunto, la memoria di quei due aborti. La strategia di Tracy Emin è molto simile a quella adottata da Damien Hirst, altro protagonista della Young British Art consacrato da Sensation, nel 2017 a Venezia, con la colossale mostra Treasures from the Wreck of the Unbelievable, nella doppia sede di Palazzo Grassi e Punta della Dogana. «L’arte ha bisogno di storie», aveva scritto Francesco Bonami recensendo quella mostra kolossal. Di storie che sopravanzino, con la loro forza e capacità di intaccare l’immaginario, l’oggetto artistico singolo, messo in discussione nel suo statuto dai tanti terremoti subiti nell’ultimo secolo.
Se quella di Hirst era un’epopea inventata dal nulla, una fantasy destabilizzante che incrociava epoche e rovesciava i punti di vista, quella di Tracy Emin invece è una storia privata trasformata in confessione pubblica, senza veli e senza vergogne: «I’ve killed my shame, I’ve hung it on the walls». È lei, con il suo corpo, con i suoi sentimenti feriti, con la spudoratezza che la caratterizza a essere il soggetto esclusivo di questa narrazione. Lo era stato anche in occasione della tenda presentata a Sensation. E lo era stato al massimo grado con My Bed, l’opera con cui nel 1999 concorse al Turner Prize (senza per altro vincerlo) e che è diventata l’icona di quella stagione artistica londinese: in quel caso il letto sfatto, con il caos che lo circondava e il materasso che aveva preso l’impronta del suo corpo, narrava quattro giorni passati in stato di semi incoscienza dopo essere stata lasciata dal suo compagno di allora.
È un approccio che spiega l’importanza che le scritte assumono nella produzione artistica di Tracy Emin; scritte spesso presentate come installazioni con neon o dipinte sulla tela, in modo volutamente rozzo. Sono messaggi che a volte tirano la morale delle storie, senza temere la banalità, nella convinzione (molto warholiana) che l’arte, al di là della spregiudicatezza dei contenuti e dei linguaggi usati, abbia come destinatari le persone normali. «L’arte è per la gente, la sua opinione è l’unica cosa che mi interessa», ripete sempre come un mantra Tracey, sfoderando un populismo venato di anarchia.
L’altro dispositivo che questo approccio narrativo fa salire inevitabilmente d’importanza è il titolo assegnato all’opera. Il titolo diventa sintagma fondamentale, portatore di una suggestione che l’opera in sé non comunicherebbe, privata completamente da quell’aura che contrassegna un esito artistico. Tracey Emin sembra volutamente compiere sulle proprie opere la stessa violenza simbolica operata sul proprio corpo e sulla propria vita: ce ne si accorge nella grande sala dedicata alla morte della madre, aperta da un trittico in cui lei stessa, a figura intera, dipinta con vernice rossa colante, si rappresenta mentre porta la cassetta delle ceneri: I was too young to be carrying your Ashes, recita il titolo. The Ashes room si chiama infatti la stanza, che va vista quindi come opera unica, narrazione di un distacco, tutta giocata fra tenerezza e spudoratezza e scandita in particolare dalla sequenza dei titoli. I disegni o le tele sono tracce veloci, quasi appunti grafici, semplici evocazioni delle singole situazioni personali; opere programmaticamente scaricate da ogni ambizione formale.
In questo Tracey Emin fa l’operazione opposta a quella attuata da un’altra star della scena artistica inglese, Jenny Saville. Anche lei lavora in modo esclusivo sul corpo e spesso sul proprio corpo ma, sulla scia di Lucian Freud, approda a una monumentalizzazione figurativa, molte volte persino sconcertante. La differenza può essere spiegata forse anche con un dato biografico: Jenny Saville ha accettato di essere madre e ha documentato questa esperienza in molte serie di opere. Tracey Emin invece si porta dentro il segno dei due aborti fatti. «È stato come stipulare un patto con il Diavolo», aveva raccontato in un’intervista, «io gli cedevo la vita che avevo in grembo e lui, in cambio, mi concedeva la possibilità di esprimere la mia arte sino in fondo, senza dover mediare con la responsabilità di essere madre». Lo scotto accettato e perseguito con molta coerenza è quella sorta di voluta sterilità espressiva che rende le sue opere fragili, elementari, a volte drammaticamente balbettanti.
Cinquanta autoscatti notturni
A dispetto dell’esilità di tanti esiti, la capacità di Tracey Emin di stabilire un rapporto empatico con il pubblico è impressionante. Lo dimostra quella processione ininterrotta di cui dicevamo, oppure il silenzio che cala nel momento in cui si entra nella prima sala, quella dedicata alla narrazione dell’insonnia, dove assistiamo a uno sfondamento del muro che separa il privato dal pubblico. Uno sfondamento dettato non da spirito di provocazione ma da una interiore necessità. La sala è tappezzata da 50 autoscatti notturni, stampati a grandi dimensioni, con close up impietosi su un volto, il suo, sfatto dal sonno. Sono istanti di vita privata che Tracey Emin con una sorta di innata spudoratezza condivide con il pubblico, attraverso una sequenza narrativa in apparenza immobile, che però noi avvertiamo sgranarsi nel tempo, notte dopo notte. Viene da pensare che la scommessa di Tracey Emin sia di raggiungere attraverso l’arte ciò che nella sua biografia ha voluto negarsi. In questo senso cerca ansiosamente nel pubblico, nella «gente», una relazione affettiva, un’interlocuzione senza schermi, capace di ribaltare quel concentrato di negatività in un’imprevista trama di vita.