Andrej Wajida ricorda gli anni di Solidarnosc e di un periodole della Storia prima della caduta del muro, attraverso il carismatico leader. Lo incontrammo ben prima della caduta del muro, quando L’Uomo di marmo era già stato un caso e presentava l’Uomo di ferro, il film degli scioperi di Danzica. In quell’occasione aveva incontrato anche il Papa polacco, Solidarnosc era nel pieno della sua attività e avevamo potuto già vedere la maggior parte dei film realizzati dalla nuova generazione di cineasti che affiancava i sindacati liberi e per almeno una decina di anni avrebbe trasformato le sale cinematografiche in assemblee aperte a tutto il pubblico che le affollava.

La nuova generazione aveva elaborato un linguaggio allusivo quanto bastava a farsi capire da tutti e non incorrere nella censura e condividere le nuove idee che avrebbero trasformato il paese. Anche Wajda si era recato ai cancelli di Danzica e non era facile immaginarlo, lui così autorevole, a capo di una delle unità di produzione più importanti, quello che parlava a tu per tu con la storia e alle volte riusciva a piegarla. In quel caso era stata la nuova generazione di cineasti a fargli aprire gli occhi: ce lo aveva raccontato lui stesso parlando dell’influenza che avevano avuto i suoi più stretti collaboratori come Agnieszka Holland il suo geniale aiuto regista. Ancora una volta, come era già successo nel passato Wajda aveva la capacità di comprendere i tempi nuovi e raccontarli, fino a poter compiere poi la sua impresa più dolorosa, rimettere in scena l’elaborazione del lutto del padre e della nazione in Katyn.

Con Walesa, l’ottantottenne regista dirige questo film realizzato per parlare a tutti, soprattutto alla nuova generazione e anche ai distratti spettatori televisivi. Un’opera che ci ha riportato ai tempi di Solidarnosc, allo stile frenetico di quegli anni così diverso da questo racconto dallo stile disteso che deve far ricordare al pubblico distratto di oggi un periodo così lontano. Già nella metà degli anni ’80 i polacchi si erano stancati del cinema politico che li aveva tanto entusiasmati e disertavano le sale se non per vedere i primi film americani che arrivavano. Poi tutto è cambiato, la Polonia è diventato il paese capitalista dove il pil è in crescita e dove la delocalizzazione fa gola.

Per far ricordare quegli anni cruciali il regista sintetizza il grande movimento di massa attorno a Lech Walesa, il personaggio più rappresentativo cofondatore del sindacato indipendente, interpretato da Robert Wieckiewicz. Il culto della personalità che era tanto osteggiato, qui non può che emergere nella figura dell’elettricista che guidò gli scioperi, dell’uomo semplice che arrivò a cambiare la storia del paese intervistato dalla celebre giornalista occidentale (quando si è accorto di essere un leader?) anche quando ben poco conosce del sistema (lei ha accettato un appartamento dal governo contro cui sta lottando. Non lo trova contraddittorio?).

Assai semplicemente Walesa risponde: «sono uno a cui piace impicciarsi e se nessuno parla allora parlo io». Ma la risposta che dà nel film una volta per tutte è «Io non sono io, sono Noi»: lo stesso film è una grande macchina collettiva, fatta di citazioni e spezzoni dai film realizzati all’epoca. Quel grande documentario collettivo che è stato Operai 80, sempre stretto sul tavolo delle trattative fino alla firma dei 21 punti tra cui il diritto di sciopero, la costituzione di un sindacato indipendente, la libertà di stampa e di parola, l’aumento di salari e pensioni, è uno dei sottotesti del film. Dagli operai uccisi negli scontri di Danzica del 1970, agli scioperi iniziati per il licenziamento dell’operaia Anna Walentynowicz e poi estesi in tutto il paese, alla legge marziale dell’81 al tentativo di distruggerlo tramite la propaganda, al premio Nobel, alla vittoria di Solidarnosc alle libere elezioni. Il resto è un’altra storia.